Farina.
Tra poco arriverai, vicina
marocchina con le occhiaie, a chiedermene una tazza, l’ennesima. Cosa ci farai
mai, con tutta quella farina, solo il tuo dio marocchino lo sa. Forse gestisci
una panetteria abusiva; forse stai facendo - a mie spese -rifornimenti per il tuo
segretissimo bunker antinucleare; forse ci sforni mobili. Ti immagino impastare
in tinello, circondata da tavolini di pane e cuscini di pane e sedioline
piccole, anch’esse di pane. Forse anche i tuoi figli sono fatti di pane.
Sempre mi suoni per una
tazza di farina e io ti aspetto.
Ieri pure sei passata e io
già la tenevo pronta e preparata, la tua scodella di farina, sul tavolino all’ingresso,
sopra la bollette da pagare: tu hai suonato, io, senza neanche
domandare chi fosse, ho aperto –tanto lo sapevo che eri tu, che arrivi sempre dopo Uomini
e donne, tu-, ti ho mollato la tazza in mano e tanti saluti. Anzi, nessun
saluto, per una volta.
Perché tu, quando vieni a
chiedermi quel pugno di farina, tu parli, vicina marocchina. Tantissimo
parli.
E io non ho voglia di
ascoltare dei tuoi Omar, delle varicelle, della diarrea di Saïd, dell’assistente
sociale che non ti dà la casa comunale, di Mamoud che ha sempre la febbre e
chissà come mai. Che vuoi che ne sappia io, della febbre di Mamoud: non sono mica
un pediatra. E non lo so dove si comprano le babbucce in cuoio a buon
mercato, è inutile che tu me lo chieda.
Che poi mi irriti indicibilmente col tuo francese
da colonizzata che esce sgangherato dalla tua bocca fina impregnata di aglio
e menta e penso che potresti almeno lavarti i denti anziché mangiare le
ciungomme, vicina marocchina: sbaglieresti comunque i congiuntivi ma almeno non dovrei voltare il capo mentre fingo di ascoltarti.