come fai a scrivere che si vede tutto negli occhi dell’immaginazione, mi chiede.
non lo so come faccio, me l’hanno già chiesto, ma proprio non lo so, se no te lo direi.
mi chiede allora quali sono le mie abitudini di scrittura e lettura e io ci penso.
e realizzo che non posso parlare di abitudini, soprattutto per la scrittura.
io scrivo con una certa regolarità da quando è nato la saRamandra. prima c’erano solo scritti sparsi, cose concrete poche: un libro per bambini; robine di ragazza piaciute a qualche concorso; cose vecchie, moooolto vecchie.
scrivere tutti i giorni (o almeno provarci, perché non sempre ci riesco) non è un’abitudine, è una disciplina che mi hanno suggerito e che ho deciso di impormi.
tu ti metti lì e tutti i giorni scrivi. a volte a me si torcono le budella, non mi viene fuori un rigo. altre volte invece penso che non succederà niente e poi invece qualcosa esce e magari è anche dignitoso.
come decido cosa scrivere? uhm. diciamo che dipende.
il mio pensiero non segue una linea retta. nella formazione di un concetto, ad esempio, procede a “balzi”. quindi io, se devo arrivare da A a G faccio tutto un giro che passa per D e poi per B e per C e bla bla bla e poi arriva a G. oppure tocca solo B ed E e arrivo comunque alla meta. se devo analizzare un problema faccio fatica perché non riesco a procedere ordinatamente ma salto di qua e di là considerando i dati in maniera “generale”. un po’ come quando leggi un articolo di giornale velocemente cercando di estrapolare a grandi linee il contenuto. il fatto è che pensare così ti porta ad avere delle intuizioni ma anche a far grandi casini perché spesso giungi a conclusioni errate perché non hai considerato tutti i dati in maniera analitica.
questo è per spiegare che difficilmente io progetto una storia seguendo uno schema narrativo e quando lo faccio mi stufo, perché tutto diventa macchinoso, forzato, una cosa di dovere. finisce che faccio come zeno cosini, che inizia a pensare a come si fa a camminare e alla fine, nel ragionare su muscoli, articolazioni e ossa, si inzoppichisce tutto e non riesce più a muoversi.
riassumendo: il percorso per arrivare a G da A è spesso lungo e disordinato però poi a G ci arrivo, sempre.
e ci arrivo per immagini.
in testa io ho più che altro immagini, “polaroid di parole” dico io: piccoli flash di visto (nella realtà o nell’immaginazione) che devo cucire insieme al parlato, allo scritto.
oggi ho letto il blog di una mamma che per spiegare al figlio di un pugno di anni la differenza tra il porno e il sesso (il piccolo inizia a far quelle domande che fanno sudare i genitori) gli ha detto, tra le altre cose, che chi fa uso del porno usa solo un senso, la vista, e un poco l’udito, mentre a fare sesso si usano tutti i sensi e ci si diverte di più.
ecco, io cerco di farci l’amore con le parole, anche amore di scopata, ma non sesso da video.
se io penso che tu stai dall’altra parte del mondo e ti devo raccontare una cosa che non hai visto o che non hai provato, io devo sforzarmi di utilizzare parole che sveglino tutti i tuoi sensi di modo che ti vibri dentro qualcosa che ti accenda.
ecco, questo sì che lo so. non lo faccio come a seguire un metodo ma lo faccio normalmente, anche quando racconto a voce quello che mi è capitato oggi in fila dal panettiere.
il mio non è “il modo giusto” di scrivere, non esiste il modo giusto. questo è un modo. ad alcuni piace e ad altri no. forse scrivo cose così come le vorrei leggere.
i libri in cui l’autore ti descrive ogni singolo filo di quello splendido arazzo del 1700 mi distruggono l’anima. li leggo come il giornale del vicino sul metrò: a grandi linee, quel che basta a capirne il senso. non mi interessa vedere nel dettaglio, non mi serve una lente d’ingrandimento. io voglio vedere come a teatro, solo alcuni punti del palcoscenico: ben illuminati sì, ma anche con tante ombre.
dove l’occhio di carne non arriva arriva l’occhio della mente a completare l’immagine: e la completa a piacimento e appropriandosi dell’intero disegno.
nello scrivere cerco l’essenziale, il segno pulito e indispensabile. è tutto un lavoro di togliere più che di aggiungere.
insipensabile per me non significa scarno o povero.
il gioco è indispensabile. anche la musicalità lo è. e il colore.
ecco: tutte queste sono cose indispensabili, per me, nella scrittura. indispensabili nel senso che sono vita.
e con questo arriviamo alla lettura.
io sono lettrice ‘gnuranta. lettrice vorace da bambina e adolescente, mi ritrovo ora a terminare si e no una decina di libri l’anno.
da piccola ho letto quintali di libri illustrati sulla natura, gli animali, le piante.
mi piacevano i libri di fiabe ma con poche illustrazioni così potevo immaginare quello che volevo. spesso il disegno mi disturbava, un po’ come quando vedi un film prima di leggere il romanzo da cui è stato tratto e dopo, durante la lettura del testo, non riesci a fare altro che visualizzare il volto dell’attore protagonista.
anche nelle letture sono stata disordinata: leggevo tutto quello che mi passava sotto mano, o meglio, lo consumavo, senza criterio.
ho frequentato il liceo linguistico e ho letto qualche classico in francese e in inglese. conta? boh, magari fa curriculum.
ho amato molto calvino, natalia ginzburg, isabel allende. montale, silvia plath, hikmet tra i poeti. recentemente, la valduga, la gualtieri e la biagini.
ecco, sì, la poesia mi piace molto. la poesia degli oggetti quotidiani, quella dove io ti dico caffè, braccialetto e sigaretta e a te si spalanca un mondo in testa, quello che vuoi.
e poi i fumetti.
tanti e tutti a caso. da paperino a diabolik, da manara a pazienza. i peanuts. dylan dog. calvin&hobbes. mi piace l’idea di riuscire a far stare una storia in una striscia, una vita in un riquadro.
quando vivevo a milano mi piaceva anche andare a teatro ogni tanto. perché a teatro si fa tutta la magia del raccontare. lella costa, ascanio celestini, davide enia.
e poi, parlando di magia del raccontare, mia nonna. non a teatro, a casina. con tante storie tutte inventate di montagne e animali e contadini.
ecco, questo è quasi tutto quello che mi è entrato nelle orecchie e negli occhi in circa venticinque anni.
forse, anche se la mia memoria funziona in modo bizzarro, in qualche modo mi si è depositato dentro, dando origine a forme nuove che escono oggi da me in un modo ancora inconsapevole ma misteriosamente strutturato.