venerdì 29 aprile 2011

fantasmi

io tutte le mattine scendo tre piani di scale che qui corrispondono a tre sole rampe.
poi apro il portone, controllo se c’è posta nella cassettina e la richiudo: non c’è mai posta.
so che il postino passa nel primo pomeriggio ma voglio essere sicura, quindi controllo ugualmente. poi alla sera, quando torno dal lavoro, controllo di nuovo con più emozione.
la mia cassettina della posta è verdona, è una specie di casetta col tetto inclinato in avanti. c’è così tanta polvere sopra che ci hanno scritto col dito “vies”, sporca.
abito qui da quattro mesi e tutti i giorni controllo se qualcuno mi ha scritto: mi piace ricevere lettere o pacchettini di sorpresa. ogni tanto apro lo sportellino della casella e ci trovo dentro una busta con un francobollo da collezione e la grafia svolazzina di mia nonna: quando mi scrive si reca appositamente all'ufficio postale a comperare un francobollo speciale per rendere il rito della lettera ancora più speciale.

per più di tre mesi non ho scritto il mio nome sulla buchetta. non mi sentivo sufficientemente presente a me stessa per apporre il mio nome a un luogo.
poi, tre settimane fa, il mio coinquilino è arrivato con un adesivo gigante, mi ha detto che si era rotto le palle di vivere con un fantasma, che non sopportava di vedere solo il suo nome sulla cassettina delle lettere e che dovevo scrivere a caratteri cubitali il mio sull’etichetta. allora ho cercato un bel pennarello nero e ci ho scritto nome-lasaRamandra-cognome, ci ho disegnato su una salamandrina e l’ho appiccicata tutta fiera sullo sportello della buchetta.

io tutte le mattine scendo tre piani di scale che qui corrispondono a tre sole rampe.
poi apro il portone, controllo se c’è posta nella cassettina e la richiudo : non c’è mai posta.
poi cerco la mia bici e non la trovo mai, ché la mia è una bici nera come le mille altre parcheggiate nella via e io dimentico sempre dove l’ho legata la sera prima.
dopo aver fatto avanti e indietro almeno quattro volte e aver pensato almeno dieci volte “stavolta me l’hanno proprio rubata” la trovo e vado al lavoro.
solitamente sono in ritardo, perciò percorro sempre la stessa strada, la più breve.
svoltato l’angolo, dopo l’ex ospedale psichiatrico, arrivo nella via di huber.
non so chi sia huber. è uno che disegna coi gessetti per terra, come un bambino. so che si chiama huber perché ieri, sotto il suo disegno della giraffa a grandezza naturale con le palme, ha scritto “qui vivono huber e la sua…”. che cosa fosse sua, non si capiva. una sorellina? la giraffa? un'adorata moglie? la scrittura era incerta e incomprensibile però huber ci aveva fatto tutto un bel riquadro blu intorno.
sono sempre in ritardo io, ma ogni giorno mi fermo a guardare i disegni di huber e a volte scatto anche delle foto. una volta ha disegnato un coccodrillo multicolore che sarà stato quattro metri e non riuscivo a farlo entrare tutto nell’obiettivo.
è bravo huber a disegnare gli animali, un po’ meno a scrivere.

io tutte le mattine scendo tre piani di scale che qui corrispondono a tre sole rampe.
poi apro il portone, controllo se c’è posta nella cassettina e la richiudo: non c’è mai posta.
stamattina scendo e non c’è più neanche il mio nome, sulla cassettina, lo hanno stappato.
poi cerco la mia bici, penso almeno dieci volte “stavolta me l’hanno proprio rubata”, la trovo e vado al lavoro.
per strada comincia a piovigginare
mi fermo davanti a casa di huber.
la pioggia ha sbavato via mezza giraffa e la scritta di huber dice solo “ qui…hb…r e la…”.
inizia a piovere fortissimo.
i disegni di huber si fanno una macchia scura e scomposta.
penso che con l’acqua se ne andrà la polvere dalla mia cassettina “vies” che da oggi è anche anonima.
se nominare una cosa significa darle forma, dei contorni precisi, e scriverla, disegnarla, significa darle vita, mi chiedo cosa succeda a certe parole a cancellarle, a farle a pezzettini.

martedì 26 aprile 2011

fastidi di rito

ho un rituale tutto mio prima di mettermi a scrivere, tutta una vestizione di cui non capisco il senso ma a cui non riesco a sottrarmi.
mi copro tantissimo, in modo esagerato. sempre indosso una felpa e una fascia di lana nera per i capelli che fa anche da “scaldacollo”. a volte le felpe sono addirittura due, una delle quali è un feticcio, una felpa troppo grande per me a cui sono però affezionata. quando fa molto freddo, la doppia calza è d'obbligo, ma raramente indosso scarpe o ciabatte: mi piace avere i piedi liberi.
ho deciso che sono affetta da ipotermia preventiva. le cause sono sconosciute: non è lo stare ferma davanti al pc a causarla, perché il freddo comincio a sentirlo non appena decido di mettermi alla tastiera, quando magari sto facendo altro.

adesso sono qui, seduta al tavolo della cucina coperta come un cosacco da tre ore.
in casa ci sono ventiquattro gradi e mezzo.
oltre alla fascia, ho in testa un racconto che non riesce a prendere forma, lo visualizzo a pezzi che non riesco a cucire insieme.

mi sudano le parole, sono esausta e frustrata per questo andare da nessuna parte.
direi che per oggi basta.

sabato 23 aprile 2011

vertigini

ho ricominciato a lavorare in gelateria. è un lavoro per me molto stancante,  però per una serie di motivi che non sto a spiegare lo faccio.
il lavoro di cucina è sicuramente più faticoso, ma prevede momenti in fase di preparazione che mi permettono di estraniarmi: la ripetizione del gesto mi è fertile al pensiero.
in gelateria è diverso: c’è il contatto col pubblico che mi gratifica, ma che non mi consente un silenzio produttivo.
dall’altra parte però, la clientela è uno spunto continuo di riflessione, il bancone diventa il mio punto di osservazione privilegiato su un’umanità varia con cui entro in contatto per pochi secondi.
osservare la gente mi piace. osservare la gente mentre la servo mi piace ancora di più.
il lavoro è faticoso perché devi muoverti in continuazione e fare mille pallette con un gelato sempre troppo duro. a volte viene la tendinite.
alla sera poi bisogna trasferire le vasche di gelato dal freezer della produzione ai grandi frigo che stanno tra il laboratorio e il negozio. lì il gelato raggiunge la temperatura ottimale ed è poi pronto per essere messo in vetrina. le vasche di gelato possono pesare cinque o dieci chili, nei frigo ce ne stanno un centinaio e durante il giorno è un continuo spostamento di vaschette. alla fine della stagione ti vengono i muscoli alle braccia ma non è il bel vedere che ci si immagina, non sono muscoli scolpiti, sono muscoli da bassa manovalanza, che scoppiano in punti a caso.

è alla sera che si riempiono i tussen freezer, i frigo di mezzo.
a me piace quel momento della giornata, è il mio momento ipnotico.
per riempire i tussen freezer devi prima stilare una lista dei gusti che serviranno il giorno dopo in vetrina. poi devi attraversare la sala di produzione e dirigerti verso la cella.
la cella è una stanza refrigerata a –25°. per entrarci devi indossare una giacca pesantissima. ci sono in tutto tre giacconi, li usano i ragazzi della produzione quando devono stipare gli scaffali.
mi infilo questa giacca che mi va enorme, che ha maniche che mi nascondono le mani. è una giacca che odora di maschio. mi piace avere addosso questa giacca calda e troppo grande, mi ricorda quando, ragazzina, rubavo le camicie a mio padre e poi, donna, al mio uomo, perché mi rimanesse addosso il suo profumo.
all’inizio della stagione sento solo un indistinto odore di maschio in quella giacca, odore di maschio qualunque. col passare dei mesi la giacca si impregna di odori misti: odore di axe, di sudore, di umidità, di cibo cinese, di ghiaccio, di tabacco, di panna. a metà stagione, quando ho conosciuto i ragazzi che lavorano in laboratorio, posso affermare con certezza quasi assoluta chi di loro ha indossato la giacca per ultimo: mi vanto di avere un ottimo olfatto. a fine agosto, a stagione ormai terminata, quella giacca è una bomba di testosterone, sembra quasi pelle di animale, ma questo non la rende meno confortevole per me.
indosso il giubbotto e mi copro la testa col cappuccio. mi infilo dei guanti di gomma spessi. è una vestizione buffa, soprattutto quando fuori ci sono trenta gradi e la gente gira in canotta.
mi asciugo le labbra prima di entrare in cella, temo sempre che mi si incollino per il freddo.
poi

tlack.

faccio scattare la maniglia, entro.
esito sempre un po’ prima di chiudere la porta alle mie spalle, la paura di rimanere bloccata dentro è costante. ma sempre devi chiudere la porta quando fai i refill dei frigo, altrimenti la temperatura interna si abbassa e non fa bene al gelato.
quindi, non importa se ti cachi sotto: quella porta la devi chiudere.
e io la chiudo.

tlack.

il secondo tlack è causa di un moto di vertigine. un momento di “ma se non si riapre più?”.
la vertigine è un avvitarsi del cuore e della pancia, uno strozzarsi per poi liberarsi, come a fare bocconi avidi di aria.
la vertigine te la dà sempre quel “ma”, quello che non ti fai mancare mai.
“ma se non si aprisse più?”
“ma se non mi sentissero, da fuori?”
ma se.
mi sforzo di ignorare quel pensiero, mi metto a cercare le scatole di gelato segnate sulla lista e le sistemo su un carrello.

passerò il prossimo quarto d’ora qui dentro, in solitudine totale.
è il momento che preferisco, è il mio momento.
si sente solo il ronzio del motore del frigo e il rumore prodotto dal mio fiato che entra come lama nella gola e tutta mi taglia.
il tempo si fa sospeso, s’incolla addosso come abisso.
l’interno della cella è luminoso, di luce quasi che acceca.
questo freddo paralizza il pensiero, istupidisce lo sguardo e mi rallenta.
mi sento un pinguino nell’acqua polare, mi sento svuotata di lavorio cerebrale.
ogni volta provo a rimanere un po’ più a lungo qui dentro, come a vedere quanto resisto, come in un’apnea di tinta vagamente suicida: un po’ di più e ancora un altro poco e ancora un pochino…
a spingermi a premere il pulsantone verde sulla maniglia per aprire la porta è la paura di essere rimasta veramente bloccata all’interno.
lo pigio sempre prima di avere troppo freddo, il pulsantone che sembra quello dei quiz tivù, lo premo prima che la vertigine di un pensiero di morte mi colga troppo lucidamente.

è sempre un “ma se” a far lo strozzo.
“ma se mi avesse mentito?”
“ma se non potessi vederla mai più? “
“ma se tutto finisse domani?”
ma se.
ma.
vertigini, asprissime, dolcissime.

mio padre ama andar per boschi. infilategli quattro pali di legno con le cime dipinte di verde in un terreno con una pendenza del 45%, spegnete le luci e fatelo camminare in tondo, possibilmente tirandogli addosso delle catinate d’acqua gelata, e lo farete un uomo felice. mio padre è fatto così: è l’idea dell’andar per funghi che gli piace, mica i funghi in sé. io mio padre non l’ho mai capito nel suo arrampicarsi per sentieri ostinato e faticosissimo, l’ho sempre seguito o con rabbia frustrata o con la curiosità arresa di chi attende l’illuminazione, di chi si aspetta che il senso del cosmo gli si riveli.

ora ho capito che anche mio padre prova la vertigine, andando a funghi.
la vertigine di mio padre è “l’urs”, è l’orso. ché mio padre ha paura di incontrare l’orso nel bosco, ha paura che l’orso se lo mangi. e non è che vada a funghi  nel Wyoming, nel parco di Yellowston, no. però lui ci ha paura uguale, che se lo sogna anche, l’orso.
ma nonostante questo, ci va, a funghi.
e gli piace.
non rinuncia, per l’orso, alle secchiate d’acqua e ai dirupi che tanto lo affascinano.
anzi, il pensiero di poterlo incontrare davvero rende il tutto più eccitante, più nervoso.
l’orso dà a mio padre quella vertigine che dà a me la porta chiusa della cella.
è il chiedersi che sarà, dopo.
è il “ma” a cui non sappiamo rinunciare.
è una droga quel “ma”.
è dubbio e possibilità.

premo con forza il pulsantone verde.
non succede nulla.
schiaccio di nuovo.
niente.
più forte.
una, due, cinque volte.
mi butto contro la maniglia con tutto il lato sinistro del corpo.
do una spallata che mi lascerà il livido.

tlack.

i clienti mi vedono uscire dalla cella di colpo, con un balzo.
prendo le scatole in braccio, quindici chili per volta, come cristiani piccoli.
i clienti vedono un alieno intabarrato attraverso la porta vetri che separa la produzione dal negozio, vedono un astronauta, mi indicano e ridono.
non sanno i clienti che sono una sopravvissuta, non sanno che io godo di vertigini.

non sanno niente i clienti, nessuno sa niente.

mercoledì 20 aprile 2011

e ora...qualcosa di completamente diverso

questo dialogo non l'ho scritto io ma la mia gemella stupida qualche giorno fa. 
ogni tanto le devo dar spazio che se no si offende.
a lei piacciono le cose sceme senza un senso, 'nci posso fare niente...


- ma cosa vuole che ne sappia, me lo sono ritrovato qui, sul banco del bar e ve l’ho portato.
- glielo chiedo un’ultima volta: a chi appartiene questo seno?
- non so più come dirvelo: non-lo-so!
- dove l’ha trovato?
- oooh! ma lo volete capire o no? era sul banco del mio bar!
- e come l’ha trovato?
- oddiocristo aiutami… allora, ve lo spiego per l’ultima volta…
- decidiamo noi quale sarà l’ultima volta. continui.
- erano quasi le otto di sera e stavo pulendo la macchina del caffè…
- con che cosa?
- come con che cosa? con una spugnetta…è rilevante?
- siamo noi a fare le domande qui. le ho chiesto con che cosa stava pulendo la macchina del caffè.
- con una spugnetta bagnata.
- bagnata con che cosa?
- bagnata…di acqua calda…
- ecco, lo dicevo io che mia moglie non capisce una mazza. usa il glassex, quella, che dice che così viene più lucida! più lucida di ‘sto cazzo, come no. mi perdoni. continui.
- sì. stavo pulendo la macchina del caffè con una spugnetta quando…
- scusi se la interrompo: ma anche per i filtri usa solo l’acqua bollente?
- normalmente sì, ma due volte a settimana uso un prodotto anticalcare apposito. però il mio è un bar, capisce, per una macchina di uso domestico basterebbe una volta al mese, penso.
- sì, gliel’ho detto a mia moglie, ma quella si ostina a ficcare una pastiglia di calfort nella caldaietta e poi non lascia scorrere l’acqua abbastanza e finisce che io mi bevo ammoniaca. ci credo che poi mi brucia lo stomaco.
- ci credo anche io…
- …
- posso continuare?
- certo. stava dicendo?
- del seno.
- ah, sì, il seno.
- vado?
- vada, vada.
- dicevo che stavo pulendo la macchina del caffè quando è entrata una donna magra con delle occhiaie profonde. la ricordo bene perché ho notato che indossava una parrucca. aveva la frangia di traverso…capisce? così, in giù, ma storta.
- sì, sì, ho capito. vuole un caffè?
- mah, se c’è sì, grazie.
- io lo posso bere solo qui al lavoro: quello di casa, come le ho detto, mi spacca lo stomaco. quella donna vuole uccidermi, ne sono certo.
- quale donna? quella del bar?
- ma no, mia moglie!
- ah, sì, giusto: il calfort.
- eh.
- insomma entra questa signora con la parrucca e mi chiede un caffè. io mi secco quando mi chiedono un caffè mentre sto pulendo la macchina, tutti i baristi si seccano se gli chiedi un caffè quando stanno pulendo la macchina. è come chiedere a un pizzaiolo di farti una pizza quando ha spento il forno.
- in che senso?
- era per fare un esempio, per dire che è irritante sporcare la tua postazione quando ormai hai pulito tutto…
- mh.
- “mh” cosa?
- mh e basta. quindi lei mi sta dicendo che era nervoso quando la donna con la parrucca è entrata a chiederle un caffè. quanto era nervoso?
- non è che ero nervoso, mi sono solo irritato!
- e quanto? abbastanza da privarla di un seno?
- senta, io non ho privato nessuno di nulla!
- eppure lei si è presentato qui in caserma con un seno in mano.
- sì, ma l’ho trovato sul bancone del mio bar, volevo restituirlo!
- a chi?
- alla proprietaria! magari si presentava da voi facendo denuncia di smarrimento di un seno…
- …o di furto di un seno…
- furto di un seno?!? non ci credo…è uno scherzo…basta, la prego, la smetta!
- basta lo dico io. altro caffè?
- no. anzi sì. ma con un po’ più di zucchero.
- io lo prendo amaro. fa più scena.
- in che senso fa più scena?
- mah, così…nei film gli ispettori di polizia bevono sempre caffè amaro, ci ha fatto caso?
- sì, ma nei film gli ispettori di polizia bevono caffè americano. e il caffè americano è lunghissimo e non serve lo zucchero. e poi nei film americani i commissari di polizia sono commissari di polizia, non carabinieri. e dalle righine rosse sui suoi pantaloni io penserei che…
- vabbè, più o meno è uguale.
- …sì. più o meno.
- ma come era questo seno?
- in che senso?
- al tatto: come era?
- eh…era…morbido…liscio…
- grosso?
- abbastanza, sì. una terza abbondante, direi.
- che ci ha fatto?
- …
- le ho chiesto di dirmi che ci ha fatto. forza, risponda.
- ahm. l’ho accarezzato un po’. ma piano. sembrava un gatto acciambellato. un gatto senza peli.
- un rex.
- no, no, non un cane. sembrava proprio un gatto.
- rex è anche il nome di una razza felina senza pelo.
- per essere un carabiniere ne sa, eh! sembra quasi un ispettore di polizia.
- che le dicevo? tutto merito del caffè senza zucchero. quindi lei ha toccato questo seno e… era d’accordo?
- chi?
- la proprietaria del seno.
- la proprietaria se ne era già andata quando io ho toccato il suo seno. sempre che la proprietaria fosse la signora con la parrucca…
- e il seno che ha detto?
- nulla! che doveva dire? è un seno!
- ha fatto le fusa?
- le fusa? no!
- lo dice come se avessi detto un’assurdità.
- no, per carità: non mi permetterei mai.
- bene. comunque il seno sostiene di essere stato toccato contro la propria volontà.
- ilsenocosa??
- lei rischia un’accusa per molestie.
- ma la proprietaria che dice?
- la proprietaria non si trova.
- e quindi?
- quindi dobbiamo basarci sulle parole del seno.
- capisco. no, anzi, non capisco affatto. posso avere un altro caffè?
- certo.
- zucchero abbondante?
- no, faccia amaro. fa più scena.

venerdì 8 aprile 2011

quasi giulia

aveva una ipsilon perfetta infilata a fiore in cima al culo, capelli rossi e occhi brillanti di muschio, occhi di animale che ti scruta da dietro le foglie.
si chiamava giulia, quasi.
si chiamava quasi giulia e aveva un profumo buonissimo.

a osservare i bravi cuochi in cucina si nota una cosa curiosa: passano un sacco di tempo ad annusare. annusano tutti gli ingredienti, anche quelli che escono da confezioni intatte. annusano i coltelli, le salse in cottura, il pesce ancora vivo. alcuni annusano persino l’acqua che bolle.
un buon olfatto in cucina ti permette di non assaggiare continuamente quello che prepari e di riconoscere la freschezza e la quaità degli alimenti.
lavorando in un ristorante il mio olfatto è migliorato, direi anzi che è diventato quasi buono, ma ancora non riesco a riconoscere tutti gli odori e a qualcuno sono insensibile.

l’altro giorno pedalavo svogliata verso casa. l’aria era buia e io stanca assai.
poi, d’improvviso, uno schiaffo.
un profumo potente che dalla punta dei capelli mi squassa e tutta mi bagna.
giulia, quasi.
gli odori entrano dalle narici ma non basta inspirare per riconoscerli. i profumi non sono cose di aria ma cose da gustare in bocca. per dar loro un nome devi imparare a farli strisciare lentamente sul palato e a farli poi posare dolcemente sulla lingua.
lì, il profumo diventa rosmarino, limone, fragola, legno.
davanti a me c’è questa tipa che pedala velocissima e che profuma di quasi giulia.
non ho mai capito di cosa profumasse quasi giulia, ma è un profumo che ancora adesso mi priva di volontà e raziocinio.
ora però so riconoscere gli odori, ora devo scoprire di cosa sapeva quasi giulia.
respiro.
cannella…latte…
pedalo che neanche coppi sullo stelvio, pedalo come una matta, scomposta.
vaniglia…panna…
la bocca mezza aperta, a farci girare meglio l’odore, a sciacquarla ogni volta.
sembro uno di quei cani che corrono accanto al padrone in motorino, sono allo stremo.
latte…caffè…no, caffè no.
di che cosa odoravi, quasi giulia? di cosa, perdio? di cosa sapevano i tuoi capelli e l’incavo liscio alla base del collo? di cosa?
zucchero caramellato…pane…
ci sono, ci sono quasi, lo sento!
poi invece quella è olandese e viaggia manco fosse valentino rossi e arriva all'incrocio prima di me 
e io spalanco la bocca,
quasi giulia, quasi giulia, fatti mangiare, quasi giulia!
e il semaforo è rosso
e c’è la polizia
e io mi cago sotto
e freno
e invece 
lei
passa.

stacco.
frustata.
buio.
silenzio.
respiro.

respiro.

respiro.

.
.


.


.

...mmmhaaaaaahh...!

.


.



si chiamava iulia 
aveva i capelli rossi 
occhi di selvatico dietro i cespugli
una ipsilon perfetta 
a disegnarle il culo.

si chiamava iulia
aveva i capelli rossi
era solo mia
e sapeva di mou.

mercoledì 6 aprile 2011

la resa

alla gelateria in cui lavoro entra una bambina che sembra una scopa. ha sopracciglia di fumo che verso l’interno s'impennano dandole un’aria triste. a occhio può avere nove, dieci anni. chiusa nel suo giacchetto blu si avvicina al bancone e chiede educatamente, con un filo di voce, se c’è ivo.
ivo è il responsabile della produzione. i bambini adorano ivo perché sanno che è lui a fare il gelato e per loro quello del gelataio è un mestiere bellissimo perché puoi mangiarti il gelato gratis. a volte vengono a chiedere di vedere come si lavora nel laboratorio che c’è sul retro del negozio oppure a provare a mettere una palletta di cioccolato su un cono senza romperlo.
ivo li fa entrare, spiega tutto con pazienza e spesso si abbassa all’altezza dei bambini per parlare con loro.
ivo è iperattivo e, mi dicono, ha disturbi dell' attenzione. a me non sembra messo peggio di alcuni amici miei che fanno uso regolare di erba. se non scoppia di caffè (io e ivo ci droghiamo letteralmente di caffè) sa essere molto bravo coi bambini.
“sì, c’è ivo”, risponde la mia collega alla bambina-scopa.
“potresti dirgli che devo fargli una domanda?”.
la mia collega va in produzione e torna con ivo.
i due iniziano una conversazione fitta, seria, intervallata da risate. ivo le parla piano, a lungo. ha da fare ivo, ma riesce a trovare sempre tempo per i bambini e i bambini lo cercano continuamente. è un po’ bambino ivo, forse per questo gli riesce così bene di parlare con loro. 
la bambina racconta che a scuola è venuta la polizia, parla di un compagno di classe che ha combinato qualcosa ma non capisco cosa. mi sforzo di capire il più possibile e, nello sforzo, spalanco gli occhi, lo so. così sembra che io fissi le persone e un po’ è vero. però quando le persone parlano la mia lingua non fisso, non così almeno.
la bambina si chiama lise.
no, non è vero. non so come si chiami. io l’ho chiamata lise nella mia testa. non ho avuto il coraggio di domandarle come si chiamava, avrei dovuto chiederglielo in olandese, avrei dovuto dirle “hoe heet jij?” ma la h aspirata di heet non mi viene mai e i bambini non mi capiscono e quindi, siccome è abbastanza umiliante dopo quattro anni non riuscire ancora a pronunciare decentemente “come ti chiami?” , le ho dato un nome di fantasia.
lise varca la porta a vetri e va nella fabbrica sul retro con ivo. io la osservo dalla gelateria. oggi, a guardare la produzione da dietro la porta a vetri, è come stare in un acquario: c'è tanto silenzio in negozio -che è deserto per via del brutto tempo- mentre dal laboratorio provengono attutiti i rumori che fanno i ragazzi durante l’ora delle pulizie. i ragazzi della produzione fanno tanto chiasso, sempre. è duro il lavoro di là, d'estate si muore per il caldo e per l’umidità e il rumore dei macchinari ti polverizza il cervello. i ragazzi dimagriscono molto nei due mesi estivi, diventano tutti di nervi, provano a mantenersi costantemente attivi sparando per il locale musica tecno a volumi insostenibili.
lise inzia ad aiutare i ragazzi a lavare i secchi con la canna, poi si stufa e si appoggia con una mano al bancone e con l'altra a un'impastatrice e si mette a far dondolare le gambe in aria facendo leva sulle braccia. salta e scalcia acqua da tutte le parti. ride.
lise è di pelle marroncina e ha due codini a palla alti sulla nuca, capelli di negra che svaporano nello sfondo. si muove composta attraversando l'aria senza inutili movimenti. se fossi capace di disegnarla, farei solo dei contorni precisi per le mani, timide, che quando lise parla le sbriciolano piano piano la punta del cono al limone che lecca con cura, lentamente, con piccoli colpi di lingua. tutto il resto lo farei sfumato, solo un'idea di lise, solo capelli spumosi e sopracciglia di fumo folto.
lise torna in negozio e mi segue, mi sta attaccata, mi chiede cose a cui non so rispondere. la capisco, ma il mio olandese è pessimo e comunicare coi bambini è terribile: ti guardano, ripetono la domanda pazienti, pensano che tu li stia prendendo in giro, si domandano perché tu non risponda o risponda in modo insensato ma non dicono niente, si limitano a ripeterti con crescente imbarazzo la domanda. non capiscono che sei tu l'ignorante, pensano di essere loro a non spiegarsi bene e a me questa cosa mi ammazza: per questo non voglio mai parlare coi bambini qui. e mi dispiace tantissimo perché io invece adoro farmi le chiacchiere coi bambini e dire loro cose di scherzo, farli ridere.
ivo spiega a lise che io parlo un’altra lingua e poco l’olandese. i bambini ad amsterdam sono abituati a queste spiegazioni. e quindi lise fa quello che è abituata a fare in questi casi: continua a parlarmi, in olandese. e io annaspo.
lise si muove come un gatto, ogni tanto si alza sulle punte dei piedi per vedere meglio i gusti del gelato nella vetrina. prova a riconoscerli dal colore e mi ripete i nomi, indicandoli col dito: aardbei? bosbessen? kaneel? meloen? chocolade?…mi fa domande e cerca la mia approvazione lise, cerca l’approvazione di un adulto che non sa parlare.
e io le rispondo, le rispondo come farebbe un bambino più piccolo di lei, con parole tutte singhiozzate e storte, le rispondo con gli occhi e con le mani.
mi sento tutta a pezzettini fini, tutta scoriandolata, mi sento un bambino muto.
eppure lise continua a parlarmi, col sorriso pulito e tranquillo di chi non ha fretta.
mi invade inaspettatamente di colore, come un aquilone. mi disarma con quel sorriso che sembra avere dentro l'india tutta e mille porte spalancate di benvenuto e centomila caffè e coperte rosse di panno morbido.
e io, impotente, mi arrendo.
vanilla? pistache? moka? smurf?
sì, lise, sì.

vanilla, pistache, moka, smurf.

sabato 2 aprile 2011

parole Altre

sono daino, vitello, volpe e forse cervo
le bestie di scuro che mi camminano intorno.
non c’è parola nei musi silenti
negli occhi cigliati lunghi di selvaggio
e in quelli senza ciglia dei cani con il becco.
eppure parlano, le bestie di ombra
parlano la lingua dell’ombra
la lingua del silenzio apneico
e del dolore del mondo tutto.
dicono il verde che s’impallida piano
e s’ingiallisce nell’ora dell’oro
dicono il ramo che si spezza e l’osso
dicono il morto
e ogni suo contrario.
zittano le bestie
ma è un gran sentire
un rivelare il cosmo, un dire
che non mi è dato di capire.