venerdì 28 gennaio 2011

libera!

e poi arriva il tempo di unire le mani alle labbra
per soffiarci dentro preghiere
e benedizioni senza fine,
parole sottili come collane di margherite
inanellate nel buio della lontananza,
luminose.
non puoi ingabbiare gli acheni dei soffioni,
te ne rendi conto; parimenti
a catturar lucciole per schiarire casa
si fanno solo vittime.
trattieni il bello
lascia scorrere ciò che è fatto per andare
libera ciò che non vuol rimanere
fai pulizia dentro di te.
ringrazia, per quello che è stato
ringrazia.

giovedì 27 gennaio 2011

la dote


è cosa di streghe, ormai lo so.
è cosa di donne-animali, che stanno nella foresta e scrutano i campi al limitare.
è dono che si tramanda di vecchia in giovane e sta nelle rughe delle mani -fatte e da farsi- e negli occhi che vedono nel buio prima di dormire.
le mie storie non sono favole. 
sono radici profonde e dure, che stanno inficcate nella terra, nello scuro.
sono storie di mondo nell’acqua nera, mondo al contrario.
esse esistono, vivono a prescindere dal mio raccontare.
quando mi chiedono una storia, io spesso dico di no, perché non mi viene.
le mie storie vengono quando chi mi è vicino ha un cuore di sasso precipitato sul fondo, da andare a ripescare (e neanche allora è detto che si disvelino).
io racconto cose che vedo, non che invento.
negli occhi, io ho altri occhi, di animale, con cui guardo il mondo di Verità.
io vedo dentro gli occhi dei lupi e dei cani e degli uccelli e dei pesci e so leggere loro nelle carni e nella pancia. 
gli animali del mondo di Verità non mentono. parlano una lingua zitta tutta di musica. 
gli animali proteggono e curano. 
illuminano.
a volte, spaventano.
mai nuocciono.
chi ha ascoltato una mia storia di abissi lo sa e aggiungere altre parole non serve.

lunedì 24 gennaio 2011

dalle stelle

i desideri grandi non si improvvisano tali, essi necessitano di una quota di volontà e di costanza  sufficienti a sostenerli.
il desiderio non è sogno, non è cosa passaggera.
la parola stessa, desiderio (desiderium, in latino), porta in sè i tempi lunghi e l’immensità delle stelle. è parola di nostalgia e di mancanza, è parola di ricerca.
ci vuole forza a desiderare, ci vuole coraggio a disarmarsi e arrendersi per rivestirsi di desiderio puro; perché il desiderio non contempla difese, ma dedizione completa all’oggetto a cui si tende. 
il desiderio è resa.
desiderare non è il vagheggiare qualcosa, non è il mollo tutto e mi apro un chiringuito ai caraibi.
desiderare è cosa di vene che saltano e di sonno che si disperde, di attese lunghe e fame della carne.
desiderare prevede strade impervie, tutte di sasso, solo salita e caldo e niente acqua a dissetare.
non c’è pace nel desiderio e il corpo si contorce, si fa di urla piccole e soffocate.
desiderare.
volere.
predisporre le cose affinchè tutto accada.
desiderare.
desiderare costa.
eppure c’è, in questo movimento doloroso dell’anima, qualcosa che ci fa grandi e ci fa sentire potenti.
qualcosa di irrinunciabile che ci avvicina alle stelle, che ci riporta a casa, che ci fa sentire indescrivibilmente vivi. 
qualcosa che forse, in qualche modo, ci salva.

domenica 23 gennaio 2011

se non ti ammazza

la verità a volte sta nel silenzio e si disvela in moti impercettibili, come di onde piccolissime, come pieghe di lenzuolo.
accade allora che la parola non riesca a farsi, a dispiegarsi, e quindi attende.
in questi silenzi ossuti che prosciugano il respiro non c’è menzogna,
c’è purezza e mai inganno.
ma l’assenza di parole a me mi ammatta,
io nel giardino muto senza uccelli mi impazzisco.
eppure ora l’orecchio si è fatto sensibile
come di gatto
e lo strofinarsi delle foglie una sull’altra posso sentire
e i passi delle formiche, tutti.

c’è chi dice che fortifica.
se non ti ammazza, sì.

sabato 22 gennaio 2011

sorprendimi

fino a quando intendi aspettare, mi chiedono, fino a quando.
non lo so fino a quando.

i miei avambracci sono pallidi e trasparenti
e dentro ci vedi le vene che sono azzurre.
a volte ci scorre la vita, a volte solo una bestemmia, come una spirale infinita.
oggi è giornata da confessarsi
che a lasciarsi vivere si fa peccato.

a scuotermi da questo torpore, dal mio pigro contemplarmi l’ombelico, vorrei una sorpresa.
una sopresa come un canguro, che mi balzasse alle spalle facendomi saltare in aria e ridere.
una sorpresa di palloncini, di amico che viene a prendermi al lavoro con un thermos di caffè, una sorpresa di pacchetto per posta, di parole, di voce che esce dal telefono, di libro dedicato.
una sorpresa mazzo di fiori, una sorpresa ti invito al cinema, ti porto fuori e non pensare a niente.

fa che sia sorpresa di temporale in una stanza, che arriva e strappa tutte le tende del quotidiano, del dire fare baciare lettera e testamento.
fa che sia sorpresa di orgasmo in una tasca, e che sia multiplo, e urlato e bagnato.
fa che entri, mi sventri, sovverta l’ordine, mi svegli.
fa che il cuore mi si fermi, si spogli e, infine, finalmente, nuovamente, mi si impenni.

giovedì 20 gennaio 2011

bye bye mayo

per fare una buona maionese ci vogliono uova, olio, un po' di amore e tanta pazienza.
devi amalgamare le uova all’olio facendo scendere a filo quest’ultimo, finché ottieni un’emulsione compatta e allo stesso tempo fluida. devi sbattere il tutto con una frusta, sempre nello stesso senso, ritmicamente, fino a quando non ti viene male al braccio, a volte anche dopo. insomma, alla maionese ti ci devi dedicare.
la maionese non è cosa che puoi mollare lì perché ti squilla il telefono, altrimenti la maionese ti impazzisce, l’olio se ne va da una parte e l’uovo dall’altra e non va bene, perché i due ingredienti devono stare sempre insieme, uniti, se vuoi una buona maionese.

a me stamattina è venuto il pallino di fare la maionese. non so il perché, a dir la verità. forse perché olio, uova e limoni erano gli unici ingredienti che avevo in casa (serve anche il limone per fare la maionese) e non mi è venuta in mente una ricetta migliore. sì, avrei potuto farci delle uova strapazzate o al tegamino (in quel caso mi sarebbe anche avanzato il limone), ma non ci ho pensato. mi è venuta in mente solo la maionese e quella ho fatto, o almeno ci ho provato.
dico che ci ho provato perché, mentre tentavo di versare goccia a goccia l’olio reggendo la bottiglia con la mano sinistra incorporandolo contemporaneamente con la frusta che tenevo nella destra, gigi, il mio coinquilino, si è alzato, ha acceso lo stereo, ha messo su i rem e si è infilato in doccia. e questo ha costituito un problema. grosso.

i rem io non li ascolto intenzionalmente da anni. non che prima li ascoltassi intenzionalmente: semplicemente, non cambiavo stazione se li passavano alla radio o non uscivo da un negozio quando li sentivo.
i rem non li ascolto perché mi fanno pensare a stefano e io non ho mai voglia di pensare a stefano.
non potevo andare da gigi a dirgli di togliere i rem perché mi facevano pensare a stefano, non potevo perché era in doccia e perché mollare la maionese a quel punto avrebbe voluto dire farla impazzire.
allora sono rimasta lì, a concentrarmi e a sbattere la mia salsa, il cuore che mi rimbalzava dentro, come una di quelle minuscole palline da squash che io non riesco manco a vedere tanto vanno veloce, gli occhi fissi sulla frusta.
non ti distrarre, pensavo, non mandare all’aria tutto ‘sto lavoro. non mollare proprio adesso.
mollare.
mollare.
ed è proprio qui che mi spezzo.
è qui che tutto il sangue mi scivola giù, ai piedi, lasciandomi senza colore e senza respiro.

io stefano l’ho mollato. ma non mollato nel senso in cui si molla il fidanzato. io stefano l’ho mollato nel senso di abbandonato.
AB-BAN-DO-NA-TO.
come si fa coi cani in autostrada: uguale.
l’ultima volta l’ho salutato in ospedale indossando un naso da pagiaccio che avevo portato per farlo ridere da dietro un vetro, chè nella sua stanza non ci si poteva entrare. io sapevo che sarebbe stata l’ultima volta, o meglio, una parte di me sapeva che in ospedale non ci sarei più andata, ma non ho avuto il coraggio di confessarlo, né a lui né a me. io sono brava a raccontarmela, bravissima. poi, appunto, l’ho abbandonato, senza nemmeno salutarlo decentemente. gli devo aver detto qualcosa tipo “alla prossima!” e poi più niente, buio, come a teatro.

io ho tradito innumerevoli volte: in amore, in amicizia, in famiglia, ma stefano è il capolavoro dei miei tradimenti, è il più perfetto, è l’eccellenza.
io so che continuerò a tradire, perché il mio senso di colpa più grande, quello che nasce dall’aver tradito ste, è la magica tassa da pagare per poter peccare di nuovo.
non c’è assoluzione, mai, solo dolore, pena acutissima e insuperabile, volutamente insuperabile. perchè è proprio questo mio non darmi perdono che mi rende in realtà libera, libera di ripetere, ad libitum, in serie minuscole e continue, copie più o meno perfette del Grande Tradimento.

ste
fa
no.

era il mio migliore amico.
davanti alla malattia (la sua!) me la sono data a gambe.
della nostra amicizia ho fatto una maionese impazzita.
e la maionese impazzita -mi ero dimenticata di dirlo ma quella di oggi me lo ha ricordato- non si può recuperare: l’hai persa e devi ricominciare tutto.
solo che a volte succede che quello era l’ultimo uovo che avevi in casa e l’olio è finito e i negozi sono chiusi e la vicina è in vacanza.

vorresti ricominciare da capo ma, semplicemente, non puoi.

lunedì 17 gennaio 2011

comunque

Ti amerò comunque
Negli spazi sottili del non esserci
Nel tempo disteso del piano piano.
Agli uccelli e all’acqua il testimone
E alle parole sacre
E agli occhi
Alla saliva mischiata nelle bocche
E agli incastri stupefatti
di carni prima sconosciute.
Ti amerò comunque.
Nel silenzio
Nella sottrazione che moltiplica
Nel bisogno nucleare
del doppio uguale ma diverso
Nell’urlo annegato
che per sempre addormenta.
Comunque
ti amerò, comunque.

niente

l’amico di un mio amico mi ha spiegato che, quando va all'estero, evita di assaggiare cibi nuovi per paura di provare poi il desiderio, una volta a casa, di qualcosa che gli è piaciuto tantissimo ma che non potrà più avere.
ridevamo tutti un po’ di lui, ma io dentro di me pensavo che in fondo lo capivo, che con l’Amore è uguale, che se una volta provi l’Amore e poi non puoi più averlo, dopo solo quella cosa lì vuoi, solo quella cosa lì cerchi, non puoi accontentarti di niente di meno, solo Amore di prima scelta, a cucchiaiate piene, niente sottomarche del discount, niente amori per compagnia, niente.

sabato 15 gennaio 2011

aspettando (non) godo

che cosa sto aspettando non lo so.
sono a questa fermata del bus
immobile, da millecento vecchiaie.
intorno, solo acqua, solo fango
sui pantaloni
e foglietti in una mano: un numero di telefono
un lampone disegnato, un sogno sbruciacchiato.
stavo aspettando un bus
stavo aspettando te.
ma è festa, è festa tutti i giorni
e gli autobus non passano la domenica.
non so più da quanto sto aspettando
non so più perché sto aspettando.

io qui
o schiodo il mio culo e ti vengo a cercare
o è meglio se vado a piedi.

giovedì 13 gennaio 2011

verità di carta

le parole nel sogno mi dicevano che mio padre era morto.
leggevo sul computer un messaggio di mio fratello a mia madre: “mamma, il papà è morto, devi venire a riconoscere…”.
mi sveglio di colpo. potrei chiamare mio padre per sapere come sta, ma una telefonata nel cuore della notte potrebbe davvero ucciderlo. opto per un sms: “ho fatto un brutto sogno, quando ti svegli dimmi se va tutto bene”.
rimango nel letto sudata, gli occhi spalancati. mangio boccate di aria, di vuoto. la luce del lampione entra dalla finestra e mi spara dritta in faccia: impossibile riaddormentersi.
arriva la risposta di mio padre: sta bene. sono le tre meno un quarto, l’ho svegliato di sicuro, papà è uno che si addormenta alle novezerodue, mentre sparecchia la tavola.
ora so che mio padre è vivo in questo mondo di realtà, ma nel mondo delle parole rimane morto.
com’è morire nelle parole? dove è mio padre morto nel mondo di scrittura? e io, figlia scritta, cosa ci faccio con un padre defunto di carta?
mio padre di carne e verità dice che, quando morirà, desidera essere cremato e vuole che tutta la famiglia si inerpichi per la val zebrù a sparpagliare i suoi resti nel giardino delle marmotte. ma questo padre morto di letterine? cosa vuole? cosa ci faccio dei suoi resti di carta? una barchetta da lasciar annegare in mare, in un ruscello della val zebrù? e di quale val zebrù? la val zebrù di carta? dov’è la val zebrù sulla carta? atlante zanichelli, tavola 16, 4B.
raccolgo tutte le lettere di mio padre, ne faccio azzurri non-ti-scordar-di-me e li sparpaglio sull’atlante.

e io? che faccio dopo io?
io dopo mi faccio gru di origami, volo via di carta di riso e non ritorno mai più.

lunedì 3 gennaio 2011

finalmente

ci sono case come gusci di chiocciolina vuoti, che attendono solo di essere abitati.
essi giacciono sul fondo del mare, silenziosi.
un giorno, un’onda più forte delle altre arriva, ti raccoglie e ti spinge lontano.
tu non decidi niente. l’acqua segue percorsi imperscrutabili, inevitabili, inarrestabili: non ti resta che lasciarti trasportare dalla corrente assecondando quel movimento antico e Giusto.
quando ti fermi, capisci immediatamente dove ti trovi. questa è casa tua, è la tua casina, la riconosci: essa respira come te, piano, non ti mette fretta.
ti ci accomodi dentro a poco a poco, ma senza timidezza: è come riprendere a camminare dopo una malattia e nei tuoi movimenti c’è cautela, e spossatezza, anche.
è una di quelle case in cui entri e ti viene una gran voglia di mangiare e di dormire, ma una voglia forte, che non puoi sopprimere, una voglia come un urlo di amore sudato.

io sono arrivata.  sono nuovamente a casa.

finalmente
dormo.