giovedì 30 settembre 2010

la sposa marina

- ciao, che cosa sei? sei una pianta marina?
- no, sono una sposa dell’acqua. e tu cosa sei?
- io sono un pesce inventato. che cosa fai qui sotto? non è il tuo mondo, questo.
- come no? sì, invece. adesso è anche mio. è sempre stato mio.
- ma che ci fai qui? non ti ho mai vista.
- sono scivolata giù da un pattìno. l’acqua era tutta limpida e trasparente che si vedeva in profondità. mi avevano detto di stare sdraiata a pancia in giù a guardare, che se no mi venivano le vertigini, ma io non gli ho dato retta. ho perso qualcosa, l’ho vista scivolare nell’acqua, sul fondo, era una cosa che luccicava: mi sono sporta troppo per afferrarla e sono caduta in mare.
- e cos’era quella cosa?
- non me lo ricordo, però l’ho vista.
- e adesso?
- adesso boh.
- come “adesso boh”?
- eh, non mi ricordo più niente. sto aspettando, mi pare.
- ma aspettando cosa?
- non me lo ricordo.
- aspetti un pesce?
- boh, sì, forse.
- ma è tanto che aspetti?
- un po’. credo.
- ma se si sono dimenticati di te, che aspetti a fare?
- non si sono dimenticati.
- come fai a dirlo?
- lo so.
- e come fai a saperlo?
- lo so e basta.
- ma ti hanno detto che torneranno?
- più o meno.
- più o meno non è sì. e se più o meno ti hanno detto una bugia?
- quello che si dice nell’acqua non è mai una bugia. punto.
- va bene. ma questi che stai aspettando, che non ti ricordi neanche chi sono…li aspetti per fare cosa?
- io devo aspettare, questo me lo ricordo. io ho promesso che avrei aspettato. quando torni a casa e ti aspettano, mica ti aspettano per fare qualcosa, ti aspettano e basta. poi puoi anche andare via di nuovo. ecco, è così, più o meno.
- ah. posso aspettare con te? ti faccio compagnia?
- sì, sei gentile.
- …
- …
- …
- …
- io mi annoio.
- ti posso raccontare una storia, se vuoi.
- sì, dai.
- vedi il mio vestito bianco? è tutto fatto di paroline, tutte parole rotonde e bianche per la sposa di acqua. tu tiri un filo sottile e me lo metti in bocca e io lo mangio e tutta la storia ti racconto. poi, se ci viene sonno, andiamo su quell’anemone a dormire: dormo sempre lì, sembra di stare in un nido di pelliccia.
- cos’è una pelliccia?
- niente, lascia stare. te lo racconto nella prossima storia.



(continua. se mi ricordo)

mercoledì 29 settembre 2010

magia di buio

stanotte ero al computer, ero al computer con la valina in chat e mi è venuta una magia. ho fatto una di quelle magie di acqua da portarla sotto il mare, giù giù dove si fanno le parole e i pesci ti nuotano vicini, anche quelli grossissimi coi denti puntuti, anche quelli brutti con le scaglie, pesci che però non ti fanno mai male.
dopo, ero stanca, che non sono più abituata e non me lo ricordavo, ma sono sempre stanca dopo che vado in quei posti profondi e lontani, dopo che vedo tutto senza usare l’invenzione. era tanto che non mi venivano le magie, non riesco più a scivolare in quei mondi, però ieri, non so perché, ci sono riuscita.
dopo la magia la valina è andata a letto, che voleva tenersi tutte le immagini nella mente, che diceva che aveva visto tutto coi miei occhi e voleva conservare quei colori e quegli animali appiccicati in testa così avrebbe dormito protetta.
io invece sono rimasta al tavolo con la schiena che si scaldava vicino alla stufa, ancora un po’ impigliata in quel mondo, cioè, in uno di quei mondi: non un mondo di pesci, un mondo diverso, tutto di buio e di morte, anche. non è bello scrivere la parola morte ma è così che sentivo.
io ero al computer e avevo sonno e a un certo punto vedo questa pantera, cioè, non si capisce bene, sento la faccia di una pantera alla mia sinistra, poco dietro alla mia testa e dietro c’è del rosso e del verde intenso, come delle pennellate. la pantera è enorme e mi fissa e fa rrrr e io mi giro ma non c’è. allora spengo tutte le luci e chiudo gli occhi e vado sotto il piumone e questa pantera, enorme, diventa sempre più grande che riempie tutto il buio e si vedono solo gli occhi rossi. non sono io a diventare piccola, è proprio lei che è enorme e io sto sotto di lei, tra le sue gambe.
io ho sopra tutto questo nero che poi diventa un dobermann
cane grandissimo e rabbioso.
io sotto piango un po’
che mi fa paura,
tantissima.
poi
il dobermann è cavallo
cavallo nero dalle zampe lunghissime e magre,
ma magre come fili di ragnatela, impossibili
e io sto sotto.
poi la pancia del cavallo si apre
scende una scala
io salgo
ma non mi piace
non mi fido
io vado sempre nell’acqua
questi posti non li conosco.
salgo e sono dentro una specie di solaio
tutto è come in un film un po’ sgrigito
i colori di polvere
e ci sono valigie aperte e giochi vecchi e pezzi di costruzioni
ma tutto è polvere.
sembrano giochi abbandonati all’improvviso.
ma dove sono andati i bambini che giocavano qui? mi chiedo.
non mi piace questo posto
è tutto morto
ho paura a stare da sola.
e mentre sto per scappare
sale un riccio tutto a palla dale scale
e le scale quando lui passa si fanno di funghi
e poi spariscono
in un puff.
io vedo questo riccetto che arriva e non ho più paura.
mi guardo intorno
e c’è una finestrella
come un buco fatto per vedere fuori dal cavallo
(ma che ci facevano questi bambini qui? perché stavano qui? non mi piace)
io guardo fuori e lontano vedo
una ragazza disegnata
morbida
coi capelli tutti di pennellata grassa e castana
tutti che si ondulano intorno a lei
che sta sdraiata
tutta in un prato verde
di pioggia verde o di foglioline di salice
insomma di fili fini sottili e brillanti.
poi io sono fuori dal cavallo
in alto
sopra tutto
e vedo che
la ragazza è stesa
sopra una donna enormissima
anche lei disegnata dipinta
donna di carni bianche e sode
tesissime come i suoi seni
e di vestito verde
di erba.
è questa donna che tutto sostiene
la ragazza
il cavallo
il dobermann
la pantera.
è una donna mondo
una donna-terra
grassissima e morbida
e sta
e
sorregge.

tutto è enormissimo che non ci sta negli occhi
tutto è grandissimo da sognare
impossibile da inventare.
è tutta una magia
un dono
una sconfinata enormità
di cose di occhi della testa
da inghiottire in silenzio
e risputare fuori
per chi ha occhi grandi
per ascoltare.

io poi dopo chiudo gli occhi, tutti
e
dormo
sfinita.



lunedì 27 settembre 2010

ceci n'est pas un post

questo dovrebbe essere il mio centesimo post ma, siccome mi e' venuta l'ansia da prestazione e mi si e' paralizzato il cervello, facciamo finta che il centesimo non  esiste, che questo non e' un post, e saltiamo al centounesimo senza passare dal via.

domenica 26 settembre 2010

moti perpetui

io stasera tornavo a casa in bicicletta, ma non a casa mia, a casa di gloria, che devo curarle i gatti. tornavo a casa in bicicletta e mi guardavo intorno, che io quando vado in giro mi guardo sempre intorno, anche quando sto ferma mi guardo intorno, anche quando ho gli occhi chiusi, a dir la verita', mi guardo intorno. 
io guardo tutto e registro e poi lo risputo fuori fatto a parola, ma parola coi colori, che rimanga dentro gli occhi di chi legge.
io guardavo tutto nel freddo, che stasera c'era quel freddo che pizzica e che ti dice che l'estate e' finita ed e' proprio ora di mettere via il giubbettino di cotone e di foderarsi con il glorioso cappottino rosso.
pedalavo e l'aria  mi sbatteva sui denti ghiacciata e m'infilzava gli occhi, che lacrimavano; pedalavo e il freddo mi gelava le guance e le mani ancor di piu', che il manubrio era tutto bagnato dalla pioggia del pomeriggio.
pedalavo e pensavo a tante cose.
a un certo punto mi e' venuta in mente un'immagine di tanti anni fa, quando facevo il tirocinio nel campo rom vicino a casa mia. io ho ancora questa fotografia in testa di me che vado al campo e cammino lungo la martesana e ho una gonna lunga e blu, tutta un po' piu' chiara in fondo, come il cielo vicino alla luna, e una canottierina lavanda e i capelli tanti e lunghi e ricci. 
io cammino e c'e' il sole e si sta bene e 
sono quasi arrivata all'accampamento
ma prima,
prima di arrivarci, c'e' un prato
a volte ci pascolano quattro cavalli o due,
allevano i cavalli, al campo,
e nico li cavalca a pelo
che ci ha il dono, lui,
di capire i cavalli,
o cosi' dicono, almeno.
io arrivo al prato
e il prato non si vede quasi piu'
oggi il prato sono trenta pony
trenta cavalli nani col ciuffo
tutti marroni
tutti vicini.
sono trenta pony che nonno zuretto ha regalato a chanel, la sua nipotina, per il suo primo compleanno. un pony per uno zingaro non e' un cavallo, e' uno scherzo, e' un gioco. il nonno zuretto, che quando mi vede mi dice "suzi gagi, suzi!" ("bella ragazza, bella!") e' tutto felice di questo scherzo, oggi.
io rivedo quel prato e penso che il campo nomadi era l'unico posto in cui, prima di trasferirmi qui, non sentivo il bisogno di andar via.
uno zingaro puo' essere stanziale da generazioni, ma dentro si porta, per la vita, un desiderio di movimento perpetuo. 
io al campo sentivo questo moto dentro le persone, persone che piu' fisse non si poteva, persone che sotto le roulotte ci avevano i mattoni anziche' le ruote, persone che al massimo erano state ad udine, dai parenti. io andavo al campo nomadi ed era come se il mio desiderio di movimento si accordasse al loro, annullandosi. 
stasera io tornavo a casa in bici, con quel freddo e quell'aria pizzicante e su un ponte tutto curvo, tutto salita e poi discesa, io sopra l'acqua pensavo
che qui sto bene
che qui non ho bisogno di scappare
che qui c'e' l'acqua che mi porta
il vento qui mi smigra i pensieri come le oche d'inverno
qui tutto e' un movimento
che lega e libera
che mi frena di piedi
ma mi sbriglia il desiderio,
come le alghe sul fondo
le alghe-capelli
che ti trattengono i piedi
ti incatenano al fondo
ma solo per gioco
solo per scherzo,
come i pony del nonno zuretto,
le alghe ti si infilano nei diti dei piedi
ma ti fanno un solletico
e tu sei legato a loro
ma in tutta l'immensita' del mare,
libero,
anche di non spostarti,
come gli zingari.

o forse no.


giovedì 23 settembre 2010

cose da non crederci, che a crederci fanno felici

mi hanno da poco comunicato che il mio profilo è stato ritenuto idoneo per scrivere su un blog in cui dovrò raccontare della città in cui vivo, amsterdam. 
potrò raccontare QUELLO che mi pare, COME mi pare, cercando di dare qualche dritta utile ai turisti.
secondo me non avevano tanti candidati tra cui scegliere perché, solo dopo aver mandato in redazione i due pezzi che mi erano stati richiesti come prova, mi sono accorta che avevo scritto "allora" anziché "all'ora".
comunque, a parte questa colossale figura di merda di inaugurazione, sono molto contenta. 
contenta-stordita. 
contenta-felice, direi. 
che non mi sembra vero che qualcuno possa PAGARMI per scrivere, cioè per fare una cosa che mi piace e mi viene naturale.
mi pagheranno per raccontare.
a scriverlo mi treman le mani, giuro.
mi pagheranno per continuare a fare quello che da tempo provo a fare, con passione: prestare a chi legge i miei occhi, veri e della testa.
hanno pure specificato che non devo fare le marchette ai locali, che io gliel'ho detto che sono una che c'ha la vita mondana di un'ameba in pensione.
non riesco ancora a crederci.
mi pagheranno per far vedere le cose con le paroline.
cioè, io posso continuare a snocciolare parole-granellino, parole-collanina, parole rotonde e bianche, e questi mi pagheranno.
tutta la città vi racconterò, tutta amsterdam sotto l'acqua e sopra in bicicletta vi racconterò.

sono felice, tanto.

grazie, a tutti quelli che fino a qui mi hanno incoraggiata e hanno creduto in me, grazie di cuore.




lunedì 20 settembre 2010

dFAM 17 o di anna, della sposa bagnata, di noè e di altre cose d'acqua.


sono tornata in italia per andare ad un matrimonio. 
diciamo che, se dovessi stilare una lista delle motivazioni che mi spingono a intraprendere un viaggio, questa non rientrerebbe in classifica nemmeno per sbaglio, nemmeno se ci fosse una lotteria. 
ma quella che si sposava è un’amica speciale.
questa amica ha il nome più bello che io conosca: si chiama anna.
“anna” mi piace perché è nome di donna palindromo che vuol dire che lo puoi leggere in avanti e in indietro e il contenuto non cambia.
anna è onda che va e che viene, sempre identica a se stessa, rassicurante.
an-na. an-na.
anna per me è nome bianco d’amore di giglio.
anna non muta mai, anna è nome che non ti imbroglia, che non dice bugie.
questa anna (che per me è annetta) è un’amica speciale perché ha vissuto un po’ con me nella mia vecchia casina al quinto piano senza ascensore. abbiamo vissuto insieme qualche tempo in un momento in cui lei era molto stanca e aveva bisogno di lasciar riposare i pensieri. sembrava un uccellino spennacchiato, in quel periodo, sembrava dovesse sbriciolarsi da un momento all’altro. e invece.
invece anna si è rivelata quercia riuscendo a mantenere la delicatezza del giglio. anna ha una forza che non ti aspetteresti in quella donna minuscola dagli occhi sempre sorpresi. anna a me piace tanto e, sopra ogni cosa, di lei mi piacciono il sorriso e la risata che sembra tipo il verso del maiale quando lo stanno per fare secco e ha paura. detta così sembra una cosa brutta ma, visto che si tratta di una risata, in realtà è una cosa simpatica.
insomma, la mia amica dal nome candido e la risata da porco oggi si sposava e io sono andata al suo matrimonio.
ho scoperto che non è molto divertente andare da soli a un matrimonio se non conosci nessuno. puoi anche vestirti un po’ da combattimento, mettere in evidenza quello che di sodo ti resta nella speranza di rimorchiare qualcuno (ma chi poi? un altro disperato come te), ma devi comunque investire energie nell’impresa e io al momento non ne dispongo. 
ciò nonostante, a chiesa piena, eseguo un’accurata scansione della fauna presente realizzando, prima del termine della lettura del vangelo, che nessuno si salva: scartati per principio i parrocchietti del coro, rimane una cricca di anziani con deambulatore e/o protesi di varia natura. in alternativa, giovinetti veramente TROPPO giovinetti, giovinetti che sarebbero tali anche per la mia amica mirna a cui, si sa, piace la carne fresca.
congratulandomi con me stessa decido pure di rinunciare a provarci col parroco (o aiuto parroco, non so bene i gradi: quello dei giovani insomma) pur mancando un soggetto simile alla mia lista di amori destinati a esplodermi tra le mani.
“non osi l’uomo separare ciò che dio ha unito”: magoni, lacrimucce, glooo-rri-aaaa!!! glo-clap-clap-riiiiiiii-clap-aaa-clap-clap-clap!!! ( mai sentita una versione del gloria come questa: gli scout ci hanno il cattosound nel sangue, ammettiamolo).
ore 16.30, la messa è finita, andate in pace, nel nome di cristo, alleluuuuu-jaaa, alleeee-luuuuuu-jaaaaa. esco, mi fumo una sigaretta, poi un’altra, abbraccio la sposa che non è più un uccellino spennacchiato ma è cigno bellissimo e bianco, mi commuovo, realizzo che ho fatto bene a venire ma anche che le ore che seguiranno saranno un tormento.

fa freddo
pioviggina un preludio di tempesta
e io
sono
completamente
sola
a un matrimonio.

- “Meglio esseRRRe in due che uno solo, peRRRché due hanno un miglioRRR compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadeRRRe, l’uno RRRialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo RRRialzi. InoltRRRe, se due doRRRmono insieme, si possono RRRiscaldaRRRe, ma uno solo come fa a RRRiscaldaRRRsi?” Qoelet 4, 9-12.

non avrei mai pensato che quella RRR moscia potesse un giorno riempirmi di gioia.

- arrigo!
- così paRRRRebbe.
- sono contenta di vederti!
- l’altRRRa volta pensavi a come eliminaRRRmi.
- hai ragione.
- ci pensi ancoRRRa?
- meno spesso di prima.
- mh. ti sono mancato?
- meno di quanto desidereresti.
- mh. ma adesso sei un po’ contenta che sono qui?
- molto più di quanto puoi immaginare. 
- io non immagino niente, sono gi altri a immaginare per me.
- giusto, dimenticavo. senti, io qui mi sono già rotta, ho una fame bestiale e sta per arrivare il diluvio universale: leviamo le tende?
- “Ecco, io sto per faRRR veniRRRe il diluvio delle acque sulla teRRRRa, per distRRRuggeRRRe sotto il cielo ogni esseRRRe in cui è alito di vita; tutto quello che è sulla teRRRRa peRRRiRRRà. Ma io stabiliRRRò il mio patto con te; tu entRRRerai nell'aRRRca: tu e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli con te. Di tutto ciò che vive, di ogni esseRRRe vivente, fanne entRRRaRRRe nell'aRRRca due di ogni specie, peRRR conseRRRvarli in vita con te; e siano maschio e femmina. Degli uccelli secondo le loRRRo specie, del bestiame secondo le sue specie e di tutti i RRRettili della teRRRRa secondo le loro specie, due di ogni specie veRRRRanno a te, peRRRché tu li conseRRRvi in vita. Tu pRRRenditi ogni soRRRta di cibo che si mangia e fattene pRRRovvista, peRRRché seRRRva di nutRRRimento a te e a loRRRo”.
-  ecco, perfetto, è scritto pure nella bibbia, vedi? prima che, affamata, io muoia per uno shock anafilattico da coppia felice, direi di fermarci a prendere qualcosa al chiosco all’angolo e sparire. ti va?
-  sì. poi posso RRRaccontaRRRti dell’apocalisse?
-  direi che sarebbe più in linea col mio umore, sì.
ci allontaniamo rapidi, breve sosta dal paninaro all’incrocio poi subito in macchina con sacchetti pesanti e odorosi di salamelle. attacco il satellitare e  al primo incrocio inizio a imprecare contro la tomtomtroia, la voce irritante che mi indica strade che io puntualmente ignoro convinta di avere un senso dell’orientamento migliore del suo. continuando a ignorare la troia tomtom, ci ritroviamo tra i campi in zona gratosoglio. io non so in che zona di milano sia il gratosoglio, so solo che è lontanissimo da casa mia. e da oggi so anche che, se mi ritrovo lì, non so come ritornarci, a casa.
sono completamente spersa, ho strappato la troia dal vetro dieci chilometri fa e non vedo più la strada a causa della pioggia. prima di sbroccare completamente accosto, abbasso il sedile e chiudo gli occhi.
penso ad anna, bellissima sposa sotto la pioggia fine.
penso a me sola al matrimonio. io non soffro la solitudine, sono una persona socievole che attacca bottone anche coi sassi, ma mi piace stare da sola. eppure questa volta, essere lì, in quell’occasione così speciale, da sola, mi ha fatto sentire veramente sola. sola spaiata, ecco.
- è bello il RRRumoRRRe della pioggia, veRRRo?
- è bellissimo, sì.
il cielo si è finalmente spaccato e sta sfogando l’ultimo temporale estivo. goccioloni grassi rimbalzano sul tetto della macchina e sulla carrozzeria. dai vetri non si vede nulla, sembra di stare sotto una cascata, sembra di stare sotto il mare. richiudo gli occhi.
penso ad anna, che si è sposata con il suo collega tanto carino che le portava l’acqua in casa, su al quinto piano senza ascensore. io glielo dicevo ad anna che secondo me era innamorato di lei, che solo uno innamorato di te, o l’omino che consegna la levissima col camion, ti porta su le casse d’acqua al quinto piano. ma lei niente, non ci credeva.
penso al nome anna, che per me è magico, che per me è tante cose tutte di amore e sincerità, ché anna è un nome sincero e quando chiami le cose con quel nome le rendi pure.
penso a tutta quest’acqua, che se non smette di cadere facciamo la fine di noè e mi immagino con arrigo a galleggiare a bordo della matiz di mia madre.
penso a …
-“tu prenditi ogni sorta di cibo che si mangia e fattene provvista, perché serva di nutrimento a te e a loro” .“a LORO”, cocca, non “a lui”, l’ha detto il nano qui davanti. L O R O: plurale, ciccia, due. fuori la sarsizza, che non si pensi di escludermi. e guai a chi sparpaglia briciole in giro: odio leccare i tappetini sintetici.

non apro gli occhi: so già.
in un odore di salamella alla griglia, alle cinque e mezza di domenica, tre giorni prima del mio rientro al lavoro, le mie vacanze hanno fine.
fuori, solo pioggia. e il gratosoglio, che non so neanche dov’è, ma è lontano.

giovedì 16 settembre 2010

spiegami

spiegami:
se tu mi spieghi io capisco,
devi solo spiegarmi.
io poi ti ascolto attenta
tutta zitta ti ascolto
non ti interrompo
mi faccio tutta di mani aperte
mani di rete per le tue parole sbriciolate,
se tu mi spieghi.
tu mi devi spiegare
ché se no io impazzisco
una spiegazione sulla faccia me la devi dare
una spiegazione negli occhi
una spiegazione me la merito, dico io,
si spiega anche ai bambini.
spiegami, per favore,
fai lo sforzo di guardarmi
guardarmi e spiegarmi
spiegarmi tutto.
io sto zitta
io ti ascolto
io non ti interrompo
ma tu devi spiegarmi.
spiegami,
spiegati,
spiegami tutto sul muso.

spiegami, amore mio
spiegami, porcoddio.

sabato 11 settembre 2010

dove si pescano le parole rotonde e bianche



le parole si fanno in un punto ben preciso dell’oceano , nel suo centro.
il centro dell’oceano è un pozzo di acqua che ti tira verso il basso, come una corrente, con bolle piccole come pagliuzze di oro.
tu, se vuoi le parole di bocca,
quelle che si fanno nella bocca,
le parole di carne,
tu devi andare lì.

c’è chi prova a pescare le paroline stando su una barca a remi con un cappellino in testa per ripararsi dal sole.
mille lenze puoi buttare ma non arrivi alla fine del pozzo, nella gola dell’oceano, no.
tu, così, le paroline per fare le storie non le avrai mai.


per arrivare alle paroline


                                                  tu devi spogliarti nudo, tutto


tutto di pelle che rabbrividisci


e tuffarti tutto liscio nell’acqua



e poi scendere






                                                                                      e scendere    







            e         s c e n d e r e
 . 
                                                          
                                                        .
                                                           
  .

                                                                .


                                                                .

                                                            .

                                                         .

                                                        .

                                                                       .


                                                         .

                                                              .

                                                                .
                                                                  .

                                                                     . .

                                                                .


                                                                  .                                  
                                                                       
                                                            .



                                                               .


                                                                  e



         s

 c


e

         n
 d
    e

r



                                                                  e

                                                           


                                    e

                                                                        a  n  d  a  r  e





                                                              g

                                                         
                                                                  i


                                                           ù

                                                            .
                                                            .
                                                            .
                                                           .
                                                            .
                                                            .
                                                            .
                                                            .
                                                             .




tu scendi e scendi e ad un certo punto, quando non senti più dove finiscono le tue mani la tua testa i tuoi piedi, quando non senti più dove sono i tuoi occhi e ti sembra bellissimo stare tutto nudo in quel buio, in quel momento diventi tutto di buio anche tu, tu diventi il buio, il buio ti entra dentro dalla bocca e ti fa di catrame. quando tu sei tutto di nero allora diventi oceano profondissimo e infinito e tocchi il centro dell’abisso, sul fondo.



sotto

è tutto zitto e lontanissimo.
tutto solo rimbombo muto di acqua.

sotto

è tutto silenzio terrifico
e lì,
siete solo tu e la bestia,
tu e Lei.



Lei donnapesce,
di piume fosche e ali come mantello
Lei la bestia,
che allatta parole-girini
Lei Madre
delle paroline tutte
Lei che ci scopi e la inchiodi
di furia e  di amore
Lei che la sbatti e la vuoi e la implori
Lei che cova
parole nella bocca
e ti imbecca, a te
ti nutre, a te,
ormai smarrito spirito
naufrago.

Lei, disperata preghiera
ultima tua supplica
unica possibilità di salvezza.





solo lì
con l’animale
nel nero
tu puoi trovare le parole


p

u

r

e


lì, nel centro dell’oceano,
 dove l’acqua si sposa col fuoco nella terra,
lì si fanno le parole
parole tutte puliziate e bianche
parole rotonde
come sassi di fiume
parole uovo
da metterti in bocca
e farci l’amore e risputare
bianche
                                       in altre bocche assetate.

venerdì 10 settembre 2010

il corpo arreso


il pezzo che seguirà è una cosa che ho scritto mesi fa.
è una cosa che  tiro fuori con piacere dalla cartellina “de ruspa!” -quella degli esercizi miei quotidiani- per dedicarla a una persona piccola ma allo stesso tempo grande e piena di forza che sta cercando la sua strada tra i fornelli, la macchina fotografica e i pennelli.
io spero che a questa persona, questo scribacchio, faccia piacere.

 ****

il movimento in cucina è un cerchio che si apre e si chiude, è collanina rotonda.
ogni gesto deve essere misurato e ripetuto puro e uguale a se stesso affinché il piatto riesca, perché la macchina di cucina non si inceppi.
cucinare non è assemblare ingredienti seguendo un procedimento.
cucinare è vedere prima con gli occhi della mente il piatto finito già apparecchiato con odori e sapori e colori. poi, solo poi, fare.
il fare è tutto disegnato dal corpo che si disciplina in uno spazio finito, a contatto con gli oggetti e la loro essenza, con il loro essere lì.
il corpo di cucina si plasma e si espande tra altri corpi di cucina tendendo alla precisione della forma, sua primariamente, e di ciò che lavora, in un secondo momento.
è un piegarsi a movimenti che devono essere quelli e solo quelli, identici e sempre di misura esatta. ogni serie di azioni si deve concludere con la pulizia e il riposizionamento ordinato degli utensili. tutto si dà per poi svanire, per non lasciare traccia al di fuori di sé, come tavola di lino bianca ancora da mangiarci sopra.
queste ripetizioni tracciano nel corpo solchi come binari da ripercorrere su e giù sicuri, senza incertezza.
su e giù, su e giù.
poi, dopo, il piatto ti viene.
ma no automatico.
il piatto ti viene perché ti è entrato dentro, perché il corpo si è lasciato addomesticare e il corpo addomesticato ti offre a quel punto il movimento perfetto.
e il piatto, così come deve essere, non eseguito ma generato.
tu questa generazione non la puoi spiegare.
ti chiederanno la ricetta e tu cercherai di essere preciso ma poi tutti si lamenteranno che diranno che il piatto non gli è venuto uguale e penseranno che hai un segreto che non vuoi dire, ma no.
e non è questione di mera ripetizione.
è questione di arrendersi agli oggetti, di offrirsi a loro.

ecco, quando scrivo o racconto quelle storie che qualcuno dice come collanine rotonde che si chiudono bene, per me è un po’ la stessa cosa.
non saprei spiegare come lo faccio, so che è qualcosa che è scritto nel corpo di carne, qualcosa che si è depositato in profondità nel tempo e che prende una forma sempre più chiara e precisa nel ripetersi, nell’offrirmi, nell’arrendermi all’essenza delle parole.

scrivere per me è resistenza e resa e ancora resistenza.
scrivere è un cerchio che si chiude.
come i movimenti di cucina.

rosso di-vino


oggi cercavo un vestito per andare a un matrimonio.
per gioco, in un grande magazzino, me ne sono provata uno da femmina che mai prima d’ora. era uno dei miei sogni da tantissimo tempo fare questa cosa,  provare dei vestiti di quelli che hai sempre visto solo nei film o in tv quando consegnano gli oscar.
era tutto rosso, lunghissimo, tutto che ondeggiava e nascondeva anche i piedi coi calzini a righe.
a entrarci, è stato come tuffarsi a candela nella panna montata o in piscina o nell’impasto per le meringhe. faceva un rumore soffice e silenzioso insieme, come  immergersi nell’acqua, ma anche in una palla di bambagia, credo.
ad averlo addosso mi sono sentita bella, anzi no, bellissima, mi sono sentita un pesciolino.
costava troppo e non l’ho comprato. non ho nemmeno un armadio in cui riporlo. e nemmeno il ferro da stiro, a dir la verità. né l’asse per stirare. ma insomma. il fatto è che non avrei occasioni per usarlo.
un mio amico, poco dopo, mi ha detto che avrei dovuto acquistarlo,  che lui, con un vestito così, ci uscirebbe anche a far la spesa (cioè, non penso dicesse letteralmente, credo volesse dire che se fosse una donna, con un vestito così, ecc ecc. almeno, credo. non mi sembra tipo da travestirsi, ma non si sa mai).
comunque io ci ho pensato e in effetti pure io vorrei uscirci, con quel vestito, e farci cose normali. tipo andare al supermercato o in bicicletta, pur sapendo che sarebbe impossibile anche solo salirci, ma a pensarci sarebbe un’immagine splendida, quella bolla di rosso sulla mia bici nera.
mi piacerebbe anche andare a dar da mangiare alle oche, tantissime e bianche, che ci sono sul canale.
ma sopra ogni cosa mi piacerebbe andare al parco, col sole o con la pioggia (ma meglio senza pioggia) e camminarci scalza e poi sdraiarmi, con tutto questo vestitopesce, e addormentarmi per un po’ e sognare di animali marini e di alghe e di parole collanine e di storie che si fanno negli abissi e di tutte queste cosine qui che piacciono a me.

mi sa che il mio amico ci ha ragione. 
mi sa che ci devo ripensare a questo vestito da femmina, a questo vestito da pescerosso. 
sì, mi sa che ci ho già ripensato :)

giovedì 9 settembre 2010

i topi non avevano nipoti

il titolo di questo post è una simpatica frase palindroma.
meno simpatico è -credo- il topo che mi è passato tra i piedi poco fa,  mentre scrivevo. 
è una pallottola grigio scuro, col codino. non è un animale come ivano, giuro. è proprio vivo, di pelo, piccolo.
quando l'ho visto sono saltata sulla sedia, come la governante della casa di tom & jerry. però non ho strillato, mi sono contenuta.
sono stata un po' in piedi sulla seggiola poi mi sono seduta con le gambe accovacciate, che mi veniva scomodo scrivere al computer da in cima a una sedia.
ho avuto il batticuore per un bel po', per una cosina così minuscola.
ora è da qualche parte per la casa e ho paura che mi salti nel letto.

io adesso non è che devo essere presa in parola su tutto quello che scrivo, eh.
cioè, prima, con la storia del frigo, mi sono trovata un iguano per casa; ora, con quella della condivisione della quotidianità, del senso di solitudine,  mi ritrovo con un topo, vero. 
direi anche basta.
o cambiamo gioco o cambio quello che scrivo.
che se mi dite che il giochino funziona così, che io racconto e poi si fa la magia, allora comincio a scrivere di scopate da guinness dei primati e di pincipieprincipesse rosazzurri. ma anche di bagni riscaldati con il bidet, molto più semplicemente, o di frigoriferi pieni. di cassette della posta zeppe di lettere e non solo di bollette, di amici che vengono a prenderti con un thermos di caffè e ti portano al parco, di ovetti kinder in cui becchi sempre la sorpresa su cinque, quella col regalo più figo. 
cioè, mettiamoci d'accordo.
per favore, su.

eccheccazzo.


p.s.: comunque al topo ho gia dato un nome: OTTAVIO. è un nome bellissimo per un topo, OTTAVIO. quasi quanto OTTO. otto non ha eguali, come nomi, perché è nome palindromo, come ANNA, e otto e anna fanno la frase palindroma più bella che io conosca:

ANNA AMA OTTO E OTTO AMA ANNA.

io sono fissata coi palindromi, ma vabè.

mercoledì 8 settembre 2010

dFAM 16 o cose di rabbia


rientro e
semplicemente
è tutto apparecchiato
e pulito.
ivano e aRRRigo siedono a tavola.
- lavati le mani, è pronto.
mi lavo le mani e mi siedo al mio posto.
- che c’è di buono?
- di buono niente, visto che non fai mai la spesa. di caldo c’è una zuppa di…brodo e  poi dei piselli con delle sottilette fuse sopra.
- beh, dai…
mangiamo in silenzio, dopo che arrrigo ci ha costretti a una preghiera.
era tanto che non mangiavo a un tavolo apparecchiato come dio comanda, era tanto che non cenavo in compagnia. cioè con più di una persona, o di un animale.
mangiamo e stiamo tutti in silenzio, ma non è un silenzio imbarazzato, è un silenzio che sa un po’ di quotidianità serena.
hanno apparecchiato tutto per bene, mi hanno anche dato la mia tazza col manico, quella smaltata che mi piace tanto.
hanno pure messo la tovaglia  anziché le tovagliette all’americana e ci sono i fiori in una brocca. si vede che si sono impegnati, che volevano farmi una sorpresa.
io guardo tutto questo e mi sembra di essere da un’altra parte, ma non capisco bene subito dove.
chiedo:
-come è andata?
ma lo chiedo tantoper, giusto perché mi sento in dovere di farlo e non mi spiego perché.
ivano fa spallucce, inclina la testa e la sostiene con a mano sinistra mentre con la forchetta nella destra giochicchia coi piselli nel piatto. sembra pensieroso.
- oggi ho raccolto dei vermi, mi dice arrigo soddisfatto. e ho addestrato una formica. adesso sa girare in tondo.
io guardo questo bambino col capoccione e penso che non dovrebbe stare qui, che non è roba mia, che non ce lo volevo, qui. penso che è proprio brutto e fastidioso e che non mi ispira nessun sentimento positivo.
- mh. utile.
arrigo aggrotta le sopracciglia, deluso.
- non hai trovato di chi è? non riusciamo a mandarlo a casa sua?, chiedo ad ivano.
arrigo mi lancia uno sguardo di pietra.
- veramente oggi non ci ho pensato. abbiamo cercato i vermi insieme.
- ah, complimenti. io a lavorare e voi a cercare vermi. bravi.
- volevi venire anche tu?
- sì va beh, continua a far finta di non capire.
ivano non si scompone, appoggia una mano sul braccio di arrigo e lo guarda come dire, lascia stare, poi passa.

io non so perché sono diventata così acida tutto di un colpo. è come se provassi ill bisogno urgente di prendermela con qualcuno per qualcosa e quel qualcuno ora sono arrigo e ivano, che c’entrano assolutmente nulla.
è che mi manca questa cosa qui di stare insieme e condividere, mi manca quello stare insieme che provavo in comunità, coi ragazzini. mi manca una casa, forse, una di quelle con la C maiuscola, quelle dove torni e c’è la luce accesa e qualcuno ancora in piedi a cui raccontare la giornata, un posto in cui, anche se è tardi, qualcuno ti ha tenuto da parte un piatto di pasta.
rientrare oggi e trovare tutte queste cose insieme  –la tavola apparecchiata bene, coi fiori addirittura, un pasto caldo che non importa se sono solo piselli col formaggio fuso, due persone sedute tranquille che ti raccontano di formiche ammaestrate- mi ha fatto montare una rabbia grigia di frustrazione.

io lo so
che queste cose qui le ho
ma anche
che non le ho.
io non voglio nessuno intorno. 
io voglio stare da sola.