martedì 28 dicembre 2010

a parte i conigli

tornando a casamilano, sul pullman dalla malpensa, son passata vicina a campi pieni di enormi conigli grigi, conigli giganti tutti di nebbia, dei superconigli più grandi dei pullmanss, dei camionss e degli aereiss.
non si vedeva niente, a parte i macroconigli nebbiosi, niente.

giovedì 23 dicembre 2010

parole rivelate

accade talvolta, nel quotidiano, che spiragli di senso si aprano e si offrono a noi, in forma di parole piene di grazia, parole come stelle alpine.
esse si fanno a sorsi brevi, discontinui; nelle cose si disvelano, illuminandole.
nostro è il compito di infilare una ad una queste parole e farne collane di bellezza pura, primitiva, vegliando su ago e filo, costantemente.
ma lo scopo non è la chiusura con click-clack della collana: lo scopo è la scoperta e la riscoperta della bellezza, nella contemplazione, nella gestualità ripetuta del fare.

aspettiamo dunque le parole nelle crepe del giorno, aspettiamole.
aspettiamole nella solitudine e nel silenzio della mente.
bisogna educare il corpo all’attesa come forma di ricerca, di incontro.
essa può logorare la carne e il pensiero, può sfilarci la filigrana, ma noi dobbiamo rimanere sempre vigili, e pronti. armati di ago e di filo, di giorno, di notte, nel sonno, nel mare, sul tram, nel letto, telefonando a casa, mescolando la zuppa:
guardare
fare
ricercare.

aspettare.

venerdì 17 dicembre 2010

ancora della scrittura

tessere parole costa.
è un gioco di abilità, di dita ostinate su nodi piccoli e serrati, su fili che tagliano.
è ricerca di equilibrio, lavorìo di testa, inarrestabile e matto.
scrivere libera dalla pena e ne principia un'altra, che ha termine solo con la scrittura la quale  allarga crepe in cui s'insinuano nuovi dolori che a loro volta... senza una fine.

ma ora sediti qui, accanto a me, sul molo:
ho grandi reti da dipanare.
adesso tutto è un groviglio, sì,
ma ho nelle tasche due pani tondi di pazienza,
per noi due soli,
sittàti a sbrogliare catturini
per parole di guizzo argentato.

rimani qui, accanto a me:
vedrai che in due è tutto più semplice
tutto più semplice e 
assolutamente impossibile.

domenica 12 dicembre 2010

mi chiedono, rispondo (o almeno ci provo)

come fai a scrivere che si vede tutto negli occhi dell’immaginazione, mi chiede.
non lo so come faccio, me l’hanno già chiesto, ma proprio non lo so, se no te lo direi.
mi chiede allora quali sono le mie abitudini di scrittura e lettura e io ci penso.
e realizzo che non posso parlare di abitudini, soprattutto per la scrittura. 
io scrivo con una certa regolarità da quando è nato la saRamandra. prima c’erano solo scritti sparsi, cose concrete poche: un libro per bambini; robine di ragazza piaciute a qualche concorso; cose vecchie, moooolto vecchie.
scrivere tutti i giorni (o almeno provarci, perché non sempre ci riesco) non è un’abitudine, è una disciplina che mi hanno suggerito e che ho deciso di impormi.
tu ti metti lì e tutti i giorni scrivi. a volte a me si torcono le budella, non mi viene fuori un rigo. altre volte invece penso che non succederà niente e poi invece qualcosa esce e magari è anche dignitoso.

come decido cosa scrivere? uhm. diciamo che dipende. 
il mio pensiero non segue una linea retta. nella formazione di un concetto, ad esempio,  procede a “balzi”. quindi io, se devo arrivare da A a G faccio tutto un giro che passa per D e poi per B e per C e bla bla bla e poi arriva a G. oppure tocca solo B ed E e arrivo comunque alla meta. se devo analizzare un problema faccio fatica perché non riesco a procedere ordinatamente ma salto di qua e di là considerando i dati in maniera “generale”. un po’ come quando leggi un articolo di giornale velocemente cercando di estrapolare a grandi linee il contenuto. il fatto è che pensare così ti porta ad avere delle intuizioni ma anche a far grandi casini perché spesso giungi a conclusioni errate perché non hai considerato tutti i dati in maniera analitica.
questo è per spiegare che difficilmente io progetto una storia seguendo uno schema narrativo e quando lo faccio mi stufo, perché tutto diventa macchinoso, forzato, una cosa di dovere. finisce che faccio come zeno cosini, che inizia a pensare a come si fa a camminare e alla fine, nel ragionare su muscoli, articolazioni e ossa, si inzoppichisce tutto e non riesce più a muoversi.
riassumendo: il percorso per arrivare a G da A è spesso lungo e disordinato però poi a G ci arrivo, sempre. 
e ci arrivo per immagini. 

in testa io ho più che altro immagini, “polaroid di parole” dico io: piccoli flash di visto (nella realtà o nell’immaginazione) che devo cucire insieme al parlato, allo scritto.
oggi ho letto il blog di una mamma che per spiegare al figlio di un pugno di anni la differenza tra il porno e il sesso (il piccolo inizia a far quelle domande che fanno sudare i genitori) gli ha detto, tra le altre cose, che chi fa uso del porno usa solo un senso, la vista, e un poco l’udito, mentre a fare sesso si usano tutti i sensi e ci si diverte di più.
ecco, io cerco di farci l’amore con le parole, anche amore di scopata, ma non sesso da video. 
se io penso che tu stai dall’altra parte del mondo e ti devo raccontare una cosa che non hai visto o che non hai provato, io devo sforzarmi di utilizzare parole che sveglino tutti i tuoi sensi di modo che ti vibri dentro qualcosa che ti accenda. 
ecco, questo sì che lo so. non lo faccio come a seguire un metodo ma lo faccio normalmente, anche quando racconto a voce quello che mi è capitato oggi in fila dal panettiere.  

il mio non è “il modo giusto” di scrivere, non esiste il modo giusto. questo è un modo. ad alcuni piace e ad altri no. forse scrivo cose così come le vorrei leggere. 
i libri in cui l’autore ti descrive ogni singolo filo di quello splendido arazzo del 1700 mi distruggono l’anima. li leggo come il giornale del vicino sul metrò: a grandi linee, quel che basta a capirne il senso. non mi interessa vedere nel dettaglio, non mi serve una lente d’ingrandimento.  io voglio vedere come a teatro, solo alcuni punti del palcoscenico: ben illuminati sì, ma anche con tante ombre. 
dove l’occhio di carne non arriva arriva l’occhio della mente a completare l’immagine: e la completa a piacimento e appropriandosi dell’intero disegno.

nello scrivere cerco l’essenziale, il segno pulito e indispensabile. è tutto un lavoro di togliere più che di aggiungere. 
insipensabile per me non significa scarno o povero. 
il gioco è indispensabile. anche la musicalità lo è. e il colore. 
ecco: tutte queste sono cose indispensabili, per me, nella scrittura. indispensabili nel senso che sono vita.
e con questo arriviamo alla lettura.

io sono lettrice ‘gnuranta. lettrice vorace da bambina e adolescente, mi ritrovo ora a terminare si e no una decina di libri l’anno. 
da piccola ho letto quintali di libri illustrati sulla natura, gli animali, le piante.
mi piacevano i libri di fiabe ma con poche illustrazioni così potevo immaginare quello che volevo. spesso il disegno mi disturbava, un po’ come quando vedi un film prima di leggere il romanzo da cui è stato tratto e dopo, durante la lettura del testo, non riesci a fare altro che visualizzare il volto dell’attore protagonista.
anche nelle letture sono stata disordinata: leggevo tutto quello che mi passava sotto mano, o meglio, lo consumavo, senza criterio. 
ho frequentato il liceo linguistico e ho letto qualche classico in francese e in inglese. conta? boh, magari fa curriculum.

ho amato molto calvino, natalia ginzburg, isabel allende. montale, silvia plath, hikmet tra i poeti. recentemente, la valduga, la gualtieri e la biagini. 
ecco, sì, la poesia mi piace molto. la poesia degli oggetti quotidiani, quella dove io ti dico caffè, braccialetto e sigaretta e a te si spalanca un mondo in testa, quello che vuoi.
e poi i fumetti. 
tanti e tutti a caso. da paperino a diabolik, da manara a pazienza. i peanuts. dylan dog. calvin&hobbes. mi piace l’idea di riuscire a far stare una storia in una striscia, una vita in un riquadro. 
quando vivevo a milano mi piaceva anche andare a teatro ogni tanto. perché a teatro si fa tutta la magia del raccontare. lella costa, ascanio celestini, davide enia.
e poi, parlando di magia del raccontare, mia nonna. non a teatro, a casina. con tante storie tutte inventate di montagne e animali e contadini.

ecco, questo è quasi tutto quello che mi è entrato nelle orecchie e negli occhi in circa venticinque anni. 
forse, anche se la mia memoria funziona in modo bizzarro, in qualche modo mi si è depositato dentro, dando origine a forme nuove che escono oggi da me in un modo ancora inconsapevole ma misteriosamente strutturato.

giovedì 9 dicembre 2010

disegnata

disegnami, dai.
fammi me nel mondo di matita.
io me tranquilla, coi pensieri srotolati dritti ma morbidi.
ecco, così.
prima le spalle, sì. poi? poi il collo. sì.
intorno mi fai i leoni blu? per giocare, solo un po’.
fammi con l’acquerello, per favore.
fammi nell’acqua, di acqua.
e i pesci, fammi tutti i pesci intorno.
e le meduse.
che schiena dritta mi hai fatto!
e adesso?
fammi bella, culetto rotondo.
le gambe lunghe
e sode.
e ora i piedi, perfetti di statua.
la pancia, rotonda anche lei,
il sesso, in una piccola mano
e l’ombelico, un anellino di scuro.
i seni così come sono mi piacciono.

non mi voglio di bianco e di nero
voglio le sfumature.
azzurrina,  azzurrina come i leoni fammi.
e dalla bocca papaveri come pugni, occhi di fiamma.

(ti  brucio il disegno con la me di dentro di rosso,
se non stai attento).

disegnami ancora un poco,
almeno le sopracciglia, folte, e il sorriso.
voglio il sorriso della me che non c’è più, in questo disegno.

poi seppelliscimi
di acqua e colore.
annegami
spariscimi.

finchè tutti i segni si azzittano eterni nella mia testa.

martedì 7 dicembre 2010

nonostante la scadenza


a mia sorella Arianna, 
che sa, che mi sa.


facciamo che ti regalano un cane a natale.
tu non te lo aspettavi proprio un cane a natale, ma neanche al compleanno, a dir la verità. tu non sei tipo da cane, non sei proprio tipo da animali: per te gli animali sono un qualcosa che si muove fuori casa, non dentro.
tu non sei assolutamente un tipo da cane, al massimo potresti essere un tipo da gatto, tutto croccantini e sporadici grattini, ma da cane proprio no.
il cane lo devi portare fuori almeno tre volte al giorno, anche quando piove, anche quando nevica, anche quando hai la febbre. il cane quando è bagnato puzza di cane bagnato e poi anche il tuo divano puzza di cane bagnato e tutti i tuoi vestiti su cui si struscia il cane puzzano di cane bagnato quando piove e di cane non bagnato quando non piove (sempre odore di cane è e non ti piace).
i tuoi genitori non ti hanno mai preso un cane quando eri piccolo e quando chiedevi “perché no?” ti rispondevano “perché poi ci si affeziona troppo”. e non l’hai mai capita fino in fondo questa risposta ma alla fine ti sei convinto che un senso deve avercelo e questo è diventato il vero motivo per cui non  hai mai preso un cane: raggiunta l’età della ragione, non l'hai più voluto per paura di affezionartici troppo.
però ormai questo cane te l’hanno regalato e adesso ti guarda con la testa inclinata di lato e gli occhi rotondi e neri.
nel momento in cui il tuo sguardo incrocia il suo, sparisce dalla tua memoria il monito genitoriale, svapora l’odore di pelo bagnato, le passeggiate obbligatorie si trasformano immediatamente nell’ occasione che tanto aspettavi per condurre una vita meno sedentaria.
il cane ti guarda e tu sei fregato: ti ha innamorato, per sempre.
e tu quel cane inizi ad amarlo come se da sempre lo amassi, come se lo avessi aspettato da sempre ma da sempre lo conoscessi: tu quel cane lo ami come una logica conseguenza del tuo essere, come una liberazione.
quel cane tu  lo ami pur sapendo che quello è un amore che porta scritta la data di scadenza.
un cane vive in media dodici anni. se sei fortunato, quel cane morirà prima di te, quando tu sarai nell mezzo del cammin di nostra vita, lasciandoti col cuore spezzato nella selva oscura. questa sofferenza la leggi tutta nel momento in cui affondi nel suo sguardo, nell’istante in cui il suo guaito ti fa vibrare qualcosa dentro il cranio, alla base del collo, sfibrandoti. la leggi e prontamente giri il cane in modo da non vederla più.
e poi niente. poi tutto cambia.
inizia la tua vita col cane: tu non sei più la stessa persona, il mondo non è più lo stesso.
ti entusiasmi per cose che –non ti spieghi perché- annoiano i tuoi interlocutori quando le racconti: cappottini per cane, guinzagli, giochini, risse tra cani al parco... ti ritieni un incompreso e giungi alla conclusione che solo i Veri Amanti dei Cani possono capirti; in realtà, ti sei completamente rincretinito.
il tempo passa, tu ti dimentichi della data di scadenza del cane, ma questo non è sufficiente a cancellarla.
e il tuo cane –che dal primo giorno non è più un cane ma è Poldo, Mizzi, Whisky, Laika- il tuo cane un giorno si ammala, soffre tantissimo e muore.
di nuovo, tu non sei più la stessa persona, il mondo non è più lo stesso.
ti senti un idiota ora, perché  solo adesso capisci il senso di quella frase, di quel “perché poi ci si affeziona troppo”. quella frase non era completa, quella frase portava in sé la pesantezza insostenibile del non detto: “e se ti affezioni troppo poi stai male, quando non c’è più”.
vedendoti soffrire, ti chiedono: ma se rivivessi oggi quel natale di tanti anni fa, sapendo che ti toccherà patire così, lo riprenderesti Poldo, Mizzi, Whisky, Laika?
e il dolore da schianto ti fa dire MAI, mai lo riprenderei Poldo, Mizzi, Whisky, Laika, se solo sapessi.

ma dentro di te
la tua parte più vera sa
che negarsi il dolore e la morte
significherebbe non conoscere mai quell' Amore di Cani
che ti si è scritto nella carne:
baci animali sulla faccia nella bocca
chilometri di zitto nella pioggia nella neve nel sole
il braccio tuo fra i denti suoi
la rabbia tua, a cazzo.
il perdono suo, sempre.
e tutto il resto, incondivisibile.

se potessi ricominciare col tuo Poldo, Mizzi, Whisky, Laika, ricominceresti.
se potessi ricominciare con il tuo Matteo, Marta, Giulia, Enrico, ricominceresti.

sabato 27 novembre 2010

la scrittora, nel corpo e nella mente.

io non sono brava a descrivermi. 
se tu mi chiedi quali sono le mie qualità, io ti dico che sono ironica. altro non mi viene, ci devo pensare, e a lungo.

allora ho fatto che ci ho pensato. ed è venuto fuori questo.




di scarpa calzo il trentotto ma mi piace camminare a piedi nudi. 
sono di corpo corto e ventre rotondo. grossi ho i polpacci da ciclista.

le gambe sono forti, le ginocchia deboli.
sono burrosa o se preferisci grassa.
l’incarnato è pallido, di poco migliora d’estate assumendo una tonalità da biscotto oro saiwa.

rotondi ho i seni, che attirano gli sguardi degli uomini e l’invidia delle donne.

gli avambracci sono nervosi, le mani tozze, a stella marina, azzurrate da un reticolato di vene, come quelle di mia nonna. 
i polsi sono fini: gioco talvolta a stringerli tra pollice e indice, in un immaginario bracciale.

porto le unghie corte, non solo perché lavoro in cucina. 

mi piace vedere le mie mani invecchiare.

curva sta spesso la mia schiena, di muscolatura fiacca.

il viso è regolare, belli ho i denti raddrizzati da anni di apparecchio.

sul labbro superiore ho una peluria che si fa burla del mio essere femmina e delle mie continue decolorazioni.
i capelli, grossi e indomabili, sono ciò che più mi rappresenta.

gli occhi ridono sempre ma nel profondo sono inquieti. li ritengo l’unica parte bella del mio corpo.

durante le conversazioni osservo la bocca dell’interlocutore. se però sono nervosa, quando ti parlo non ti guardo in faccia.

di me dicono cose che non credo vere: tipo che sono paziente, che scrivo bene, che sono femminile, che ho una buona mano in cucina, che sono una persona forte e coraggiosa.

di me dicono anche cose che non saprei dire se sono vere o false, tipo che trasmetto tranquillità o che scopo ma non mi faccio scopare o che ero una brava educatrice.
mi trovano d’accordo quando dicono che sono matta e incoerente, che sono capace di disegnare, che ho sviluppato un buon olfatto e migliorato il mio gusto, che sono testarda.
ho alcune fissazioni, tipo i nomi palindromi.

soffro di una lieve dislessia o disgrafia, che peggiora quando sono stanca.
mi piace giocare ma non sono competitiva, quindi mi impegno molto ma non bado minimamente al punteggio e questo spesso fa innervosire i miei compagni di squadra.

ho una pessima memoria, dimentico troppo in fretta, anche i torti subiti, anche i tradimenti commessi.

mi ritengo una persona che è stata ed è molto amata. 

ho paura di morire annegata o in un incidente d'auto.
mi piacciono gli animali ma per me rimangono sempre tali, non riesco a umanizzarli.
non so gestire la rabbia.

se assisto a uno spettacolo di magia non voglio sapere dove è il trucco.

a volte ho la sensazione di essere di vetro e non è un bel sentire.
da qualche anno, arrivo puntualmente in ritardo agli appuntamenti con gli amici.
cerco la Parola Perfetta: non perfetta in senso universale, ma perfetta per me, mia, da me generata e quindi unica.
cerco nella parola l'essenzialità non spoglia della bellezza.
io penso che esistano mondi sommersi che aspettano solo di essere raccontati.
io a volte in quei mondi ci arrivo come per caso, poi ne racconto, poi perdo la strada per tornarci poi di nuovo la ritrovo.
io non so come accade in me il raccontare, ma è come per la magia: in fondo, non voglio saperlo.


se io non scrivo mi appassisco, poi mi secco e infine muoio.

lunedì 22 novembre 2010

icari

se tu mi metti in mano i tuoi sacri occhi e la tua lingua
io ti porto dove solo con la mia mente di anguilla
tu puoi infilarti.
mi riempio la bocca di rane io
e ti ricamo un canto, sotto
nell’acqua del lago immobile e tesa come una tela.
l’acqua di lago odora la morte
ché l’acqua del lago stagna
e non si muove il respiro in essa.
stanno secchi di denti rotti, sul fondo
pensieri corrotti.
ma guarda, ora:
s’è fatta una colla sulla mia pelle di piume nere
e in due e' contagio, contaminazione.
e te lo leggo nelle dita, nel segno puro
il marchio che t’ho bruciato
a lettere piene che parlano una lingua di fuoco nuova
figlia
del nostro guardare.

ma dopo esserci incendiati gli occhi
- che sappiamo arrivare allo zenith, noi -
non ci resta che cavarceli, vicendevolmente
nel nero
come a succhiare lumache piccole
dal guscio rotondo,
come a non avere scelta.

venerdì 19 novembre 2010

la sposa marina. quarta parte.

- ehi, ma…cosa stai facendo? perché dai da mangiare il tuo vestito di paroline alle murene ghiottone? te lo faranno a pezzi!
- meglio.
- e come farai a raccontare le storie? come troveranno la strada quelli del pattìno?
- non c’è nessuno che cerca la strada, nessuno che si è perso, nessuno che mi verrà a prendere. mi sono inventata tutto. è tutta una cosa della mia testa, tutta una fantasia.
- ma come? il nido di pelliccia, il mirtillo, i baci di cane…non è vero niente?
- no, quelle cose sono storie e le storie sono vere. sono io che non sono vera. io non sono una sposa marina, non sono una sposa. io non ce l’ho uno sposo che ascolta le mie storie. io non ce l’ho uno sposo, punto.
- e quindi te ne vai? te ne vai perché non hai lo sposo? ma scusa…non possiamo fare che tu fai le collanine di parole, le metti in una conchiglia e le tieni da parte…per me, per le meduse, per i coralli colorati…
- ma allora tu non vuoi capire!



le mie parole
sono parole
                      
  
A
O            N

L            E
L


sono parole di sposa marina
parole
generate nella bocca
dentro l’acqua
sono parole
per. uno. solo.



- ma anche io ti ho sentita raccontare! tu sei la sposa marina che racconta le storie, lo sanno tutti.
- tu non capisci. mi sono inventata tutto, TUTTO! io non esisto, lo sposo non esiste e, se lo vuoi sapere, neanche tu esisti, infatti nella storia tu sei “il pesce inventato”, sei come me, in-ven-ta-to!
- tu…tu…tu…tu sei cattiva.
- sì, sono una sposa cattiva. anzi, no, io non sono una sposa. io sono un niente cattivissimo.



continua (temo o prometto?)

mercoledì 17 novembre 2010

stupidate

mia nonna (non quella delle storie, quella dei pizzoccheri) è rimasta vedova molto giovane, intorno ai quarant’anni.
da ragazzina, vedendola sola, le chiedevo: perché non cerchi qualcun altro?
lei mi rispondeva: quando troverò un uomo con i baffi come quelli di tuo nonno, mi risposerò.
non ha ancora trovato nessuno con quei baffi.

io a quel nonno ho voluto tanto bene, benissimo, però se ne è andato troppo presto.
quando io e mio fratello eravamo piccoli e mio nonno già era morto, mia nonna il giorno del suo compleanno ci faceva disegnare un piccolo fiore, una margherita come quelle che piacevano a lui, e ce la faceva attaccare con lo scotch sul calendario.
mio nonno mi era simpatico anche se lo posso affermare solo guardando le fotografie, perché in realtà non mi ricordo più il timbro della sua voce o il suo odore o quello che mi diceva. diciamo che dalle foto aveva una faccia simpatica, la faccia di uno che secondo me ha anche un buon profumo di tabacco e una voce calda e un po’ severa.
sulla sua lapide c’è scritto solo “…ciao!” e io ho sempre pensato che fosse una cosa amorevolmente lieve da scrivere su una tomba, una parola tra persone che non si separano veramente.

i miei nonni vivevano a milano ma erano di origini valtellinesi.
io non so che lavoro facesse esattamente mio nonno a milano, faceva un lavoro con la tuta, tipo operaio, o benzinaio. però direi più operaio che benzinaio, chè non puzzava di benzina mio nonno, no.
per me, mio nonno era un falegname. lavorava il legno benissimo. mi aveva fatto un gioco, stupendo, una tavola per incastrarci delle figure geometriche. e poi un carretto, che ruppi per incuria bambina. mia zia possiede tuttora una piccola culla per le bambole fatta da lui, una culla di cui sono sempre stata invidiosissima.

mia nonna amava molto mio nonno e mi raccontava con orgoglio che aveva lavorato come manovale alla costruzione della diga di cancano. a cancano in realtà ci sono due dighe: la diga di s. giacomo e cancano II. non so quale lui abbia costruito ma non è importante, questa è solo una storia e nelle storie alcuni dettagli non contano niente, non è come nel mondo di verità vera.
a me sono sempre piaciute le dighe perché mi fanno pensare a mio nonno.
le dighe tengono l’acqua abbracciata tra le montagne e fanno laghi, vicini al cielo.
le dighe c’erano anche sul sussidiario, nelle illustrazioni dei paesaggi montani; il sussidiario ti spiegava che con l’acqua di quei laghi vicini al cielo ci si fa l’energia per le case e le luci delle strade.
le dighe stanno in piedi per qualche miracolo di ingegneria a me incomprensibile, soprattutto le dighe ad arco.
dietro il muro della diga l’acqua spinge senza sosta, eppure la diga non cede mai.
deve essere faticosissimo essere una diga.
perché la diga sta.
la diga resta, rimane, non se ne va, qualsiasi cosa succeda.
quando il monte toc è scivolato nella diga del vajont e l’acqua si è mangiata le case, i cani le biciclette, i bambini, i giornali, le donne, le vacche, le chiese, i vecchi, le macchine, gli uomini, i negozi, le scuole, quando il monte toc è caduto nel lago e ha sollevato un mare sopra la terra spazzando via una manata di paesi e duemila persone, la diga non è venuta giù.

la diga è rimasta lì
ferma
immobile
a ricordarsi del bel lago abbracciato dalle montagne
la diga è rimasta lì
ferma
immobile.

stupida.


tre anni fa, quando mi sono trasferita ad amsterdam, una delle prime sere che dormivo con gloria nella casa nuova ho sognato questo nonno della diga. non ricordo il sogno, ricordo solo che mi diceva “fa’ la brava, eh! fa' miga stupidade!”, fai la brava, non fare stupidate.


oggi, di colpo, mi torna in mente tutto questo: la diga, il nonno, il sogno.
scrivo la storia e questa mi finisce così.
direte: ma che finale è questo?
e avete ragione, ma questo è l’unico finale possibile, credetemi: perché questo non è il mondo di verità vera e le storie, qui, vanno dove vogliono loro.

lunedì 15 novembre 2010

cuore di osso

il mio cuore di osso
ha dentro tutto il nero della foresta
delle tigri dei lupi e dei serpenti.
il mio cuore di osso
è fiamma buia
che spaventa e allontana,
è cielo spaccato
e mare che scoppia.
ma il mio cuore di osso
ha dentro anche un grano
di me
piccola
ancora viva.

se io ti do il mio cuore di osso
tu non lo devi perdere mai
mai lo devi abbandonare
il mio cuore di osso
con quel grano di piccola.




(vi assicuro, ero una bambina quantomeno simpatica e, tranne quando cantavo, non davo granchè fastidio).

sabato 13 novembre 2010

la fame, i figli

si dimenticano i figli a volte
come cani al supermercato
e aspettano i figli
di essere ripresi
fuori da scuola
a casa dei compagni
degli zii.
aspettano, loro
ma se anche tu li lasci
questi imparano a tornare a casa
da soli
che ti amano, i figli
e cercano solo
tozzi di pane secco
e latte bollito.

ai figli bastano le briciole
tue
e una vita davanti
per urlare la fame.

venerdì 12 novembre 2010

pagurami tutta!

mercoledì quelli della redazione di zingarate.com mi hanno detto che il mio blog su amsterdam sta andando bene, con 2400 accessi dall’apertura, 200 solo l’altro giorno. sono contenta.
oggi guardo le statistiche qui su blogger -che però si capisce che sono fatte a muzzo quindi non le prendo seriamente in considerazione- e si dice che leggano lasaRamandra una trentina di persone al giorno: fa molto privè, se vogliamo.
ma ora non sto scrivendo per raccontarvi dell’andamento dei miei blog, ma perché sto ridendo da sola come una scema.
mentre controllavo gli accessi, sono andata a leggermi le parole chiave per la ricerca, ovvero quelle parole che, digitate su google, vi portano al mio blog. spiego per chi ci capisse ancor meno di me: se voi digitate ad esempio “ivano l’iguano” google vi spara fuori il link a lasaRamandra. anche se cercate “oca oche” arrivate qui.
ecco, ben due persone sono arrivate qui digitando “paguro nella figa”.
giuro, solo a scriverlo rido di nuovo.
perché, se queste persone cercavano veramente uno dei miei racconti, significa che hanno mischiato quello del paguro (dove di figa non c’è manco un pelo) con quello della rossa, che di figa ne aveva sì un bel q.b., ma di paguri neanche l’ombra di un guscio. in questo caso avrebbero tutta la mia solidarietà, perché anche io faccio di questi mix micidiali, incollo ricordi a collage con risultati spesso buffi e diversi dalla realtà.
oppure queste persone cercavano veramente un paguro nella figa e lì mi si apre un mondo di piacere animale di cui ammetto tutta la mia ignoranza.

io ringrazio questi pescatori di paguri nella figa perché mi hanno involontariamente fatto ridere di gusto di prima mattina e, se stessero leggendo questo post, li pregherei di presentarsi, anche in privato, perché vorrei davvero stringer loro (virtualmente) la mano.

storie liquide per cervelli intasati

mi baci gli occhi, sì?
mi baci sotto gli occhi, dentro, e ci infili le paroline, sì? per favore…
una storia, raccontami. raccontami una storia di animali.
di animali quali? quelli che vuoi.
lupi? lupi va benissimo.
raccontami una storia, sono stanca di raccontare.
una storia nella bocca, una sola.
ho sonno, tanto, sempre, sai?
ma non riesco a dormire,
mi si è intasato lo scarico del cervello
si è intasato di parole
e i pensieri fanno ingorgo.
raccontami una storia, ti prego.
leggera
nel nero.
soffiami una storia
nella bocca
spegnimi la testa
chiudimi
nella
tua
mano
mangiami
fammi addormentare.

t  i     p  r  e  g  o.

giovedì 11 novembre 2010

rossa di sara

al cinema kriterion vicino a casa mia c’è un caffè.
mi piace il caffè del cinema kriterion, ti ci porterei, piacerebbe anche a te.
nel caffè del cinema kriterion c’è un’insegna rossa con una scritta bianca che dice kriterion (per forza, siamo al cinema kriterion, se fossimo al the movies ci sarebbe scritto the movies, ma il the movies è dall’altra parte della città e l’insegna del the movies è rossa su fondo bianco, non il contrario, come questa del kriterion).
al caffè kriterion oggi c’era una barista rossa, giovane e rossa, ma giovane tanto, rossa un po’ meno.
a me piacciono molto le rosse, ma molto che non ci capisco più niente se le guardo negli occhi per più di quattro secondi e questa barista giovanepiccola e rossa perfetta, coi capelli legati, tutti storti scalati, questa barista con le braccia burrose, tutte morbide e cremose, questa ragazza con gli occhi tagliati a cinese ma coi capelli irlandesi, io me la sono guardata tutta, me la sono consumata a guardarla: dalla poltroncina del tavolino basso la guardavo, poi dal tavolo alto vicino al bancone del bar, da dietro una montagna di mentos e di mars e di tazze sporche di cappuccino io l’ho guardata, tra la testa della bionda con gli occhiali da nerd e quella della giapponese col cappello da david crockett io la guardavo e col pensiero la chiamavo: rooossaaa...rooossaaa...girati rossa! tipo troisi col vaso facevo: vieniiii…vieeeeeniiii…!
ma la rossa non si girava, io guardavo la rossa che di baci piccoli le avrei riempito la bocca, di baci piccoli da succhiarmela tutta, baci come goccioline, baci piccoli da succhialingua, ma la rossa non si girava.

io però poi
in un angolo nel bar del cinema kriterion
tutta me la sono succhiata questa rossa
tutta me la sono bevuta
tutta piccola l’ho fatta diventare
piccola minuscola
piccola da entrarmi nella fica
piccola da darmi centomille piccoli baci
baci che ti succhiano da dentro
che ti leccano e ti lappano e ancora ti succhiano
baci liquidi in punta di fica 
che ti stringono bevendoti
centomille piccole bocche
come di centomille piccoli pesci
tutti a succhiare
per respirare.

io la barista molto giovane e rossa  precisa me la sono scopata tanto e a fondo, ma tutta di testa me la sono scopata, che all’uscita dal kriterion ancora inciampavo nel desiderio, frustata di fiamme di fantasia.

lunedì 8 novembre 2010

la sposa marina. terza parte.

io vedo solo lei che sta lì sul fondo del mare, sempre nello stesso punto.
sta lì ma non c’è più.
solo, i suo occhi rimangono aperti, come sospesi tra due mani a coppa.
e il suo vestito, bianco di fili di paroline, afflosciato tra i sassi.

poi.

dice il pesce inventato:
- ma dove sei finita? non ci sei più?
- ci sono, ci sono…
- ma sei diventata come il pesce-sabbia, non ti si vede…come fanno a trovarti così? si perderanno...

e la sposa marina non risponde


ma

l  e  n  t  a  m  e  n  t  e

gli occhi diventano due fari, grandissimi e luminosi
e il vestito di parole perline una luna, un sorriso
poi tutta la sabbia sale
diventa scoglio
si fa la sposa marina donna scoglio
donna scoglio o montagna
immensa e smisurata.
tutto intorno il mare
tutto l’oceano.
continua a crescere questa sposa marina
diventa grandissima che tutto trema
sdraiata
le gambe piegate e divaricate
la testa all’indietro
di pietra
tutta che esce dalle sabbie
e dal mare
che tutta l’acqua si ritira
l’acqua tutta le scivola addosso e 
  

                  c
              

                          
a
           



                                 
                          d


e

dalla bocca
dagli occhi
tra i seni
sulla pancia




c
     



       a



d
                                                                 


                                         
               e




come fiume
come ruscello




s






     
 c 





                e







n                              





d                          









e



e tutte le paroline si tira dietro
che deve la sposa sfamare gli assetati.

l’acqua le rotola addosso grassa
fino in mezzo alle gambe
dove tutto si apre

c a l m o

in un porto rotondo
di pesci gialli 
di uccelli rosa

c a l m o
.






ecco, dice la sposa,
qui per forza si deve arrivare
qui sempre arriva l’acqua.
non ci si può perdere,
non si possono perdere.

basta seguire l’acqua.
basta seguire le paroline.

sabato 6 novembre 2010

memorie grafiche di una testa smemorata

mi tornano in mente alcuni quadri che ho visto alla mostra di munch, a rotterdam.
una mia amica dice che per lei munch è catartico, così come lo è stato un mio racconto che ha letto tanto tempo fa. dice che le sue ferite -quelle della mia amica intendo- attraverso la visione di quelle immagini o la lettura delle mie parole, "spurgano". un po' come quando metti l'acqua ossigenata su un ginocchio sbucciato ed escono tutta la sabbia e il sangue. la mia amica dice che dopo si sente meglio, anche se brucia.

io non so come mi sento ripensando a quei quadri. sento che li ho dentro, che c'è qualcosa di quei quadri che è dentro di me.

il buio.
una strada persa.
una vena di inconfessabile (e terrorizzante) follia. vera.

alla mostra alcune opere mi hanno colpito più di altre.
ma la mia memoria pare aver raggiunto un livello di autonomia più elevato del mio e decide lei cosa registrare e quando. quindi magari io in quel momento sono convinta che quel volto lì, ad esempio, con quegli occhi verdi sporgenti, non lo dimenticherò mai, ma non è così.
se alla mia memoria gira, io me lo sono già dimenticato il giorno dopo.
e allora io lo disegno, così la mia memoria la frego.
non faccio dei bei disegni, ma non è quello lo scopo del mio segnare sulla carta: lo scopo è ricordare.
anche con le parole è così: ricordare, lasciare una traccia per non perdersi, per non perdersi del tutto.

ho deciso di caricare tre schizzi che ho fatto alla mostra. l'ultimo è quello da cui è nato il racconto della sirena. l'ho messo per ultimo così se volete tenervi il disegno che vi siete fatti nella testa non vi rovino nulla.
ah: quel disegno è molto brutto. ma non sono io che l'ho disegnato brutto, anzi, posso dire di aver fatto davvero una buona copia. era proprio brutto in sè. però era molto intenso, davvero.



Madonna -1896- litografia

martedì 2 novembre 2010

sandwoman (seconda parte)

- uh! che buio! non si può accendere la luce?
- aspetta, aspetta…adesso segui la mia voce…poi la luce arriva.
- sì, ma tu parla eh, che non voglio mica perdermi!
- non ti preoccupare, siamo quasi arrivati. vedi che si fa già più chiaro?
- uh…sì!
- …
- ehi, ma…ma…

e dentro l’orecchio, dopo uno stretto passaggio che neanche a venezia, tutto si fa spazio illuminato soffice. c’è una luce diffusa, morbida e gialla sospesa, una luce a grappolo, che sembra provenire da diversi punti. è come luce di lanterne appesa al didietro di centinaia di lucciole che fluttuano vicine e piuttosto compatte. apposta non dico “sembra luce di lucciola” perché la lucciola ha una luce fredda, come un neon, invece questa è luce di camino, calda.
intorno alla luce non si vede nulla, non si vedono i confini di questo spazio, solo si sfuma gradatamente nel nero questa luce di lucciole-lanterna.
- siamo arrivati? sono un po’ stanca di camminare.
- arrivati? non si arriva mai…però sì, diciamo di sì. guarda!
- eh, vedo. ma c’è solo luce…
- no, devi guardare meglio, non vedere: guardare.
- uhm…
e ‘sto pagurino nudo ha ragione, che a spremersi gli occhi in effetti qualcosa si scorge: intorno, quel niente che vedevo non è niente, quel niente sono montagne, no anzi, dune, no anzi, sono…che cosa sono ?

sono
piante altissime e sottili
tutte scure fino al cielo
che in cima si curvano e fanno una culla al contrario.
sono
medaglie impilate come soldini
e
piccoli teschi a palla ammucchiati
e
insetti
con mille gambe e antenne
e
fruscii di foglie
e poi
lingue e occhi
a galleggiare anche loro
tutti in mucchi separati
come di biancheria
come tante stanze sul corridoio.


e io dico
- dov’è, qui?
- qui è dove tu senti, sono le parole che senti e ti entrano dentro, tutti i giorni, da sempre, da quando ancora stavi nella pancia.
- …lì?
lì è acqua e rumori di animale madre. lì era la mia pancia.
il paguro annuisce sorridendo.

poi ritorno a questi occhi, questi occhi che non so cosa sono e poi lo so, di colpo lo so. sono le parole non dette, le parole degli sguardi, le parole che si avevano in gola e sono uscite solo sulla faccia, mute.
come l’altro giorno sono uscite dagli occhi della mamma e dal papà di monica, la ragazzina con gli occhi ad oblò che lavora con me. loro non ti parlano con la bocca, loro ti parlano con gli occhi. niente mi hanno detto, niente mi ha detto lui con quegli occhi di animale di bosco che sfugge, niente mi ha detto lei con quegli occhi di fiera, niente mi hanno detto ma io ho sentito tutto. anche se non avete avuto il coraggio di chiederlo perché vi sembrava cosa impropria, io l’ho sentito uguale e sì, non la lascio da sola la vostra bambina, ci guardo sempre con occhio un po’ di zia, anche se è grande.
sono parole mute, sono schiaffi, mani che ti stringono il volto prima di un bacio bagnato, quegli occhi nell'orecchio, sono parole di niente.
di niente come quel niente che mi ha detto stefano quando se ne è andato, che niente mi ha detto perché io non c’ero, io non ci sono voluta essere quando era malato. e però lui tutto mi ha detto coi suoi occhi prima di andarsene per sempre e quegli occhi ancora dentro adesso mi parlano e ridono e mi danno un perdono che io non so darmi.
alcuni occhi parlano più della voce, parlano sincero e tu sai tutto dagli occhi. gli occhi dopo ti entrano nelle orecchie perché dentro quelle due biglie sta la verità e a volte è verità di buio che la lingua ha paura a dire, a volte è verità di amore troppo doloroso a cantarsi o di addio afono, senza suono.
tutte le parole-occhi mi stanno nell’orecchio e tutte le riconosco, pure.
stanno davanti a me e mi guardano come in un abbraccio, antico e doloroso.
tutto è pieno di parole intorno a me, tutto è pieno di parole dentro di me.
- e le bugie? le bugie dove sono? chiedo al paguro.
l’animalino si gira e mostra un pugnetto di conchiglie bianche sbriciolate.
- tutto qui?
- tutto qui.
ma io lo sapevo già: solo, volevo vedere.
cammino ancora un poco e mi trovo davanti un cesto gigante di parole-lingua. sono le parole che ti scorrono dentro e ti spogliano tutta e tu quando le senti perdi la spina dorsale e ti afflosci, perdi respiro, posizione eretta, raziocinio tutto. quelle parole d’amore ti segnano la pelle, da dentro te la segnano, rimangono come cicatrici, a memoria, e tu passandoci le labbra sopra, sfiorandole appena con le ciglia, le puoi far risuonare tutte in una musica a cascata.
io guardo le mie parole-lingua e sono tante, tutte d’amore vero e pulito e fortunato.
mi viene tutto d’un tratto sonno, da non tenere più gli occhi aperti.
- scusa…ho bisogno di riposare, sono molto stanca. mi stendo un po’ qui, su queste piccole lingue…su questi piccoli baci.

mi sveglio, davanti al computer, la schiena a pezzi. 
ho fatto un sogno strano…c’era un animale, tipo una vongola…
ah, che stanchezza! oggi al lavoro ho  preparato centinaia di ravioli a mano e quando sono rincasata non mi sono neanche fatta la doccia da tanto ero distrutta. ho semola ovunque, perfino nelle orecchie.
ma mi lavo domani, adesso ho troppo sonno.

lunedì 1 novembre 2010

sandwoman

me ne sto da ore annoiata davanti al computer: mail, blog, facebook, ancora mail…
mi prude un orecchio, sento come se ci fosse qualcosa dentro. il fastidio è tale per cui ci infilo un dito, non riesco a evitarlo. in effetti è proprio così: ho un orecchio pieno di sabbia. non capisco. chiedo agli amici di faccialibro di illuminarmi: come è possibile che io abbia della sabbia nelle orecchie?
pochi secondi e in molti si sbizzarriscono: “sei una fata del mare” (cozze si chiamano, no fate: cozze), “sei una sirena” (magari!), “sarai andata in fondo al mare mentre dormivi” (suggestivo) “è colpa del vento”(razionale)…ecc. ecc.
intanto io continuo a tirare fuori sabbia, ormai se n’è accumulata una certa quantità, sarà almeno un cucchiaio da minestra.
inizio a essere un po’ preoccupata.
poi sento uscire dall’orecchio qualcosa di grosso.
vedo con la coda dell’occhio una cosa piena di zampe e d’istinto grido e mi raggomitolo sulla sedia.
- emmammmia! mai visto un paguro?
- un cosa?
- un paguro. sono un paguro, non si vede? ah, sì, certo! non mi riconosci perché sono senza conchiglia…ma non ho avuto tempo di vestirmi…vorrei vedere te, se ti buttassero fuori casa mentre stai facendo le pulizie!
- macheccazz…?!

allora. io non ho la più pallida idea di come sia fatto un paguro, non l’ho mai visto un paguro io, o forse sì, nella sirenetta mi sembra che ci sia un paguro, o almeno credo, non l’ho mica visto tutto quel cartone, non mi piacevano i disegni.
a me, se mi dici paguro, viene in mente un libro sugli animali che ho letto alle elementari, in quarta, mi pare. mi ricordo che la maestra ardelia ci faceva leggere un libro al mese e poi ci faceva fare un disegno su quello che avevamo letto. la classe, per alzata di mano, votava i disegni più belli da appendere su un cartellone e i miei venivano scelti sempre perché allora ero abbastanza brava a disegnare. mi ricordo però di quella volta che ho letto ‘sto libro sugli animali e mi sono ridotta la sera prima della consegna a fare 
‘sto fottutissimo disegno.
a tempera.
su un foglio A3.
ovvero:


la

morte

nello




s          p          a          z          i          o



I            N            F            I            N            I            T            O




mia madre, pennello alla mano, smadonnava (no, non è vero: mia madre al massimo sbuffa). io, dopo  la prima ora passata al tavolo tipo alfieri, ero talmente in preda all’ansia di non riuscire a portare a termine la consegna, che riuscivo solo a saltellare in cucina tirandomi nervosamente i riccioli (con mia madre che intanto continuava a dipingere al posto mio).
non so per quale misteriosa ragione io avessi deciso di disegnare il paguro.
me lo ricordo distintamente quel disegno. me lo ricordo benissimo per due motivi: primo perché il risultato finale fu, per così dire, originale. e secondo perché mi causò una grandissima umiliazione. ma procediamo con ordine.
io dovevo aver letto che il paguro, quando cresce, si cerca una casa più consona alle sue dimensioni e la storia doveva avermi affascinato. però forse non mi era chiaro il meccanismo o forse avevo confuso il paguro con qualche altro animale descritto nel libro perché io ho poi disegnato, con abbondanza di dettagli, un animale con testa e zampe arancioni (e fin qui può starci), di forma cilindrica, completamente coperto di piccole conchiglie, alghe, coralli, sassi…una sorta di kebab di pattumiera con una specie di gambero che usciva da una delle due estremità. in poche parole: faceva schifo, non sembrava niente. non: “non sembrava un animale”, no, non sembrava niente, non si poteva paragonare a nulla di conosciuto perché allora i kebab manco esistevano a milano, nemmeno in via padova, per quanto strano possa sembrare.
eppure i miei compagni votarono quel disegno. e qui si svela l’altro motivo per cui mi ricordo del paguro. la maestra disse che quel risultato non si spiegava e invitava i miei compagni a votare nuovamente, perché non erano obbligati a scegliere il mio lavoro solo perché solitamente disegnavo bene: se lei avesse potuto votare, non avrebbe scelto il mio disegno perché, semplicemente, era brutto. quindi, in un colpo, la maestra ardelia mi demoliva pubblicamente come disegnatrice, mi privava del suo affetto (questo era quello che ne evincevo io) e per di più insinuava qualcosa che non capivo, tipo che io avessi fatto pressione sui compagni affinché mi votassero. a pensarci adesso, provo ancora un senso di nausea (ma quello forse sono i due etti di lokumi al pistacchio che mi sono scofanata davanti al computer…)
insomma, a me, i paguri mi stan sul cazzo. e questo non fa eccezione.

- scusa ma cosa ci facevi nel mio orecchio?
- beh, cercavo casa e ci sono entrato. è comodo sai?
- ma quando ci sei entrato? (dio, sto parlando con un paguro…)
- quando dormivi!
- quando dormivo?! (...“sarai andata in fondo al mare mentre dormivi”...)
- sì, quando dormivi. senti ma...dov’è finito il mare?
- il mare?
- eh, sì, il mare. di solito c’è tutto il mare intorno.
- ma di solito quando?!?
- di solito sempre. cioè, adesso è...è strano. e  poi adesso tu parli. di solito dormi, nel mare.
- …
- …
- quindi mi sei entrato nell’orecchio quando stavo sott’acqua…a cercare le paroline?
- sì.
- ah.
- ma non è buio? non è sporco? dentro l’orecchio, dico…
- no…cioè sì. un po’ buio lo è, ma non dappertutto. e poi è caldino. vuoi vedere?
- ?
- vieni, ti invito a casa mia!
- nel mio orecchio?
- sì. vuoi?
- va bene, vengo. ma...cosa devo fare per entrare?
- niente, basta che ti togli le scarpe: ho appena pulito il pavimento, era pieno di sabbia.

(
continua. se mi va)

venerdì 29 ottobre 2010

melancholische man en zeemeermin

c’era un quadretto, oggi, alla mostra su munch, un quadro piccolo che non sembrava tanto importante.
era un disegno, quattro righe buttate lì, un po’ coi pastelli, un po’ con l’inchiostro.
questo quadretto era grande quanto una foto formato standard, 11x15 circa, e raffigurava un uomo un po’ curvo, seduto su un sasso sulla riva del mare.
l’uomo si teneva la testa tra le mani.
di fronte a lui, sulla destra del foglio, stava fuori dall’acqua una sirena sdraiata a pancia in giù.  l’uomo era malinconico, lo diceva la didascalia, ma anche senza leggere la scritta lo avresti capito ugualmente, che se ci hanno messo prezzemolo e non quel signore lì a fare da testimonial di gardaland una ragione ci sarà.
il fondo del quadro era giallino, tipo carta del salumiere di una volta.
pochi tratti di verde e di azzurro per tracciare la profondità: un viale di alberi sulla sinistra, forse cipressi, una chiesetta sullo sfondo, tra le colline.
poi lì, in primo piano, queste due figurine, appena abbozzate, essenziali.
lui sta seduto, tutto di roccia, di giacca nera e capelli neri e pantaoloni neri e scarpe nere e con la mano si sorregge la testa, pensieroso.
lei lo guarda con un occhio troppo rotondo, sembra un occhio di rana o un occhio sbagliato, il naso sproporzionato, i capelli bagnati, collosi, di alghe.
lei lo guarda e aspetta
aspetta che tutta quella malinconia gli passi
ma non sa che dire
lo guarda e fa andare la coda nell’acqua
tutti cerchi blu scuro si fanno intorno alla sua coda di sirena
lei prova a distrarlo coi giochi di donnapesce
ma non serve a niente
è tutta una macchia nera
come che si fosse rovesciata la moka sul foglio e non si può più pulire
però lei guarda
e aspetta
e gli dice con la voce muta di sirena

tutto passa, uomo malinconico,
ma tu non abbassare la testa
tienila su,
guardami negli occhi,
guarda davanti a te,
guarda il mare
basta guardare i sassi,
ormai li hai contati tutti
guarda il mare
il mare
torna nel mare che ti fa leggero
e lascia il cappotto nero qui sulla riva
respira
respira, uomo malinconico
respira
poi se vuoi dopo te lo rimetti, il cappotto
ma adesso respira
respira nell’acqua
respira
ancora una volta
respira
ancora una volta
nudo.

e sembra per un attimo che lui ci pensi
alle parole di quella sirana
poi però no
poi torna melanconico
che così dice la didascalia
dice “uomo melanconico con sirena”
e le didascalie dicono la verità
e infatti uno mica può diventare “uomo felice” solo perché gli gira
mica è facile essere felici
ci vuol coraggio a esser felici
ci vuol determinazione
soprattutto se sei un uomo melanconico di un quadro
e in un quadro di munch ancor di più
che lì anche solo un refolo di pallida serenità
potrebbe sfrantumare i più studiati equilibri cromatici.


a me questo quadretto è piaciuto proprio molto, sembrava contenere una storia o mille.
volevo caricare una foto da internet ma non l’ho trovata: tante foto alle sirene di munch, ma neanche una alla sirena con gli occhi da rana.
per ricordarmi bene l’immagine ho però fatto un disegno a biro nera su una moleskine. magari carico quello.
o magari non carico niente, così immaginate e basta.

mercoledì 27 ottobre 2010

acquaticamente

è una settimana che ho nella testa tre polaroid mentali in movimento, tre cortometraggi. sono tre immagini che non mi so spiegare, ma che sento profondamente legate tra loro.
il senso non lo capisco ancora, ma forse, a raccontarle, lo troverò. 

nella prima c’è una folaga, una di quelle anatrine nere con la mascherina bianca, che si immerge nel canale davanti a casa mia e poi sotto l’acqua nuota e io dal ponte vedo dove va perché seguo come pollicino le bolle picolissime che salgono in superficie. ogni volta che si immerge io conto quanti secondi rimane sott’acqua: ventidue…quattordici…trentotto…quarantasette…

nell’altra c’è carla a undici anni, dodici forse,
solo il viso di carla ai bagni di saturnia, in una pozza,
solo il bianco intorno a quel viso rotondo
sotto l’acqua
gli occhi chiusi
sereni come non li ho mai visti
labbra carnose
i capelli neri di medusa sparsi
bollicine-perline sul naso peruviano
carla che sta sotto l’acqua e mi dice di contare
e rimane immobile un minuto e cinquantadue
io che mi spavento
che penso non respiri più
l’afferro per i capelli e la tiro fuori di colpo
carla che spalanca gli occhi e sputa
e mi chiede se sono diventata matta
spruzzi dappertutto, tosse,
no carla, è che credevo fossi morta
sono un’educatrice ansiosa, io.

poi nell’ultima scena ci sono io.
io che pedalo in bicicletta e sembro normale, come le altre persone, ma se mi guardi in controluce ti accorgi che sono tutta di acqua dentro, piena di pesci e di coralli e di alghe, tutta di acqua anche nella bocca e negli occhi.
vivo in immersione al contrario io, in immersione nel mondo di aria, fingo una vita tuttapposto, ma sto in apnea nel mondo di aria, che qui è tutto un fare finta, tutto un cercare di non pensare a quell’acqua che ho dentro, a quei pesci e a quei colori perché fa male.

io a volte mi chiedo
se alle papere manca mai il respiro
e se carla respirava meglio senza fiato nella pozza o sopra ai sassi bianchi di saturnia
io a volte ci penso e me lo chiedo
perchè per me la risposta non è così scontata
perchè a me l’aria mi manca
mi manca l'aria nell’aria
no, anzi,
a me mi manca l’acqua nell’aria,
tutti i giorni,
pur avendocela dentro.

sabato 23 ottobre 2010

i cani neri

grattano alla porta-finestra minuscoli cani neri
piccoli musi di cane senza padrone.
piove, e forte, che fuori è un pieno di rumore  e dentro casa zitto.
solo la stufa soffia,
e anche il vento dal buco nel muro soffia, freddo.
io mi muovo invisibile senza suono
ascolto i cani
e la pioggia
e ogni respiro di stufa.
solo
faccio rumore con la forchetta nel piatto
ma pochissimo,
una lama sul ghiaccio.
sgocciola, fuori,
schioccano gocce sugli alberi
sui cani
nel nero.
la testa del cane mi guarda
muta
dentro.
sa il cane dove guardare
guarda il cane dove non voglio esser guardata.
negli occhi del cane il mio dentro
la mia me di acqua senza il guscio
il cane vede
e lecca
e lecca
e lecca.
io sono la me nascosta
biancovestita
nella bocca del cane
nel buio
in una casa piccola
con una luce gialla
una nidiata di cani-pulcini intorno
la pioggia che allaga le orecchie
io me
annegata
nella bocca del cane.

specifico

non è che sono sparita, è che mi sto concentrando un po' sull'altro blog, che devo capire come riuscire a raccontare cose utili e interessanti senza fare raccontini aridi da guida turistica.

e poi mi sforzo anche di uscire un po' di casa cercando di riuscire a stupirmi di nuovo.
a volte -poche- ci riesco. e quando riesco lo racconto. 
altre volte no. e allora penso. 
o non penso e rimango in silenzio tranquilla e con la testa vado in posti dove non succede niente
solo posti da vedere
posti-panorama
posti dove solo piccoli dettagli si muovono
-un treno giallo che corre sui binari, la luce di un faro sulla costa, nuvole-  
posti che ci puoi solo fare delle fotografie di parole 
ma a volte non serve neanche 
e allora guardi 
e ti riposi 
e va bene così.
forse.

martedì 19 ottobre 2010

cose da non crederci, che a crederci fanno felici: seconda parte

il blog su amsterdam di cui vi avevo parlato è partito. devo ancora modificare alcune cose (tipo quela promessa da giovane marmotta che compare vicino alla foto del mio profilo: NON l'ho scritta io!) ma pian piano si farà tutto. spero di riuscire a starci dietro.
di una cosa sono contenta: ho ottenuto dalla redazione il permesso di scrivere tutto in minuscolo: AH!

ecco il link al sito:
http://www.zingarate.com/network/amsterdam/

lunedì 18 ottobre 2010

impossible is nothing (più o meno)

l’altro giorno era uno di quei giorni in cui ti sembra di sprofondare in un pozzo di gommapiuma e soffocarci dentro e mi hanno chiesto che cosa mi avrebbe fatto stare meglio in quel momento. io pensavo solo a una cosa, ma sapevo che era una cosa impossibile da ottenere, tipo come chiedere a un granchio di camminare diritto. allora io ci ho ripensato a lungo, ma dentro non sentivo veramente nulla, nessun desiderio: tutto piatto, proprio da non sapere da che parte iniziare. poi ho guardato fuori dalla finestra. io fuori ho un tavolino con due sedie. mi sono ricordata che fino a non molto tempo fa mi piaceva bere il caffè lì fuori. e mi sono ricordata che ancor di più mi piaceva andare sul canale - che sta in fondo alla stradina- portarmi la mia tazza di caffè e fumarmi una sigaretta guardando le papere. una roba molto da vecchi, sì, ma a me piaceva.
mentre rispondevo alla persona che mi aveva posto la domanda io guardavo fuori dalla finestra ma quel fuori mi sembrava lontanissimo e irraggiungibile e l’idea di arrivare al canale proprio mi atterriva, era ed è un’idea paralizzante. pensavo a tutte le cose belle che avrei potuto vedere ma era come non avere nessun aggancio emotivo ad esse, ecco.
è tanto che non vado più sul canale, pensavo, manco mi ricordo più come si fa, ormai. capace che se arrivo fino a lì mi dissolvo, puff! divento di vapore trasparente, sicuro.
poi però oggi mi sono decisa. mi sono impegnata tantissimo e ce l’ho fatta. ho preparato il caffè, la borsa con il tabacco e la moleskine, mi sono infilata il cappotto pesante, quello verdone col cappuccio di pelo, quello che mi protegge da tutto, e sono uscita con la mia tazza fumante in mano.
una volta fuori non ho più pensato a quanto mi sembrava difficile fare quella cosa. già intravedevo il canale, già sentivo le anatre starnazzare.
mi sono seduta sulla panchina e l’acqua era un po’ nera e un po’ oro che ancora c’era un filo di sole ma già iniziava il buio.
mi sono portata un biscotto grosso alla cannella e l’ho intozzato nel caffè.
mi sono rollata una sigaretta e l’ho fumata.
una paperina di quelle nere col muso bianco, quelle che sembra che portino una maschera neutra sul volto, mi è venuta vicino a becchettare le briciole.
sono passate quattro barche. una di queste si chiamava joie de vivre e a bordo c’era anche un tipo con una fisarmonica rossa. speravo che iniziasse a suonare passandomi davanti e invece no. a me piace molto la fisarmonica.
passando, joie de vivre ha smosso tutta l’acqua dietro di sé. ma l’ha fatto piano, morbida, quasi liquida anch’essa. quando la barca è passata si sono fatte tante ondine regolari come di olio, che sembrava che avessero tirato le lenzuola di un letto dal centro.
faceva freddo ma mi piaceva stare lì, non mi ricordavo che fosse così bello.
uno dopo l’altro sono planati ai lati del canale diversi aironi. uno camminava proprio vicino a me.
io lo guardavo muoversi al rallentatore sull’acqua. poi quardavo anche gli altri suoi parenti e stavo bene.
mi facevano proprio bene dentro.
che gli aironi si muovono sottovoce e sono come una leccata di cane sul muso, calda e tutta di cura, a volte.

giovedì 14 ottobre 2010

chissà chissà


                                                         Se
                                                      nto
                                                         che
                                                            mi
                                                              sto
                                                           infi
                                                            lan
                                                               do
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                                                                b

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                                                              c

                                                           h

                                                              i

                                                              n

                                                             o
                  

                                             un buco stretto di pelo
un buco lungo e buio.
                                    
                        non è un bel posto, a dir la verità.
allo stesso tempo però mi piace, è caldo.

                                        ed è
                                             tutto in discesa
                                                 silenzioso.
                                                           
                                                            è come sguisciare nella pancia di un gatto
                                                                  o dentro un marsupio animale.

                                                tante voci gialline,
                                      come pulcini, sottili,
                                                  mi chiamano da là sotto:
      
                                                   e
                                                io
                                              v
                                              a
                                          d
                                            o
                                           
                                            v
                                           a
                                            d
                                                o


che più si scende, più si fa calduccio
e poi devo solo
lasciarmi scivolare.

chissà se alla fine di questo buco,
all’uscita di questa tana di pelliccia,
ci sarà qualcuno ad aspettarmi,
chissà se ci sarà una mano grande ad acchiapparmi al volo
quando salterò fuori di qui.

chissà
chissà
                                                 chi lo sa.