sabato 23 aprile 2011

vertigini

ho ricominciato a lavorare in gelateria. è un lavoro per me molto stancante,  però per una serie di motivi che non sto a spiegare lo faccio.
il lavoro di cucina è sicuramente più faticoso, ma prevede momenti in fase di preparazione che mi permettono di estraniarmi: la ripetizione del gesto mi è fertile al pensiero.
in gelateria è diverso: c’è il contatto col pubblico che mi gratifica, ma che non mi consente un silenzio produttivo.
dall’altra parte però, la clientela è uno spunto continuo di riflessione, il bancone diventa il mio punto di osservazione privilegiato su un’umanità varia con cui entro in contatto per pochi secondi.
osservare la gente mi piace. osservare la gente mentre la servo mi piace ancora di più.
il lavoro è faticoso perché devi muoverti in continuazione e fare mille pallette con un gelato sempre troppo duro. a volte viene la tendinite.
alla sera poi bisogna trasferire le vasche di gelato dal freezer della produzione ai grandi frigo che stanno tra il laboratorio e il negozio. lì il gelato raggiunge la temperatura ottimale ed è poi pronto per essere messo in vetrina. le vasche di gelato possono pesare cinque o dieci chili, nei frigo ce ne stanno un centinaio e durante il giorno è un continuo spostamento di vaschette. alla fine della stagione ti vengono i muscoli alle braccia ma non è il bel vedere che ci si immagina, non sono muscoli scolpiti, sono muscoli da bassa manovalanza, che scoppiano in punti a caso.

è alla sera che si riempiono i tussen freezer, i frigo di mezzo.
a me piace quel momento della giornata, è il mio momento ipnotico.
per riempire i tussen freezer devi prima stilare una lista dei gusti che serviranno il giorno dopo in vetrina. poi devi attraversare la sala di produzione e dirigerti verso la cella.
la cella è una stanza refrigerata a –25°. per entrarci devi indossare una giacca pesantissima. ci sono in tutto tre giacconi, li usano i ragazzi della produzione quando devono stipare gli scaffali.
mi infilo questa giacca che mi va enorme, che ha maniche che mi nascondono le mani. è una giacca che odora di maschio. mi piace avere addosso questa giacca calda e troppo grande, mi ricorda quando, ragazzina, rubavo le camicie a mio padre e poi, donna, al mio uomo, perché mi rimanesse addosso il suo profumo.
all’inizio della stagione sento solo un indistinto odore di maschio in quella giacca, odore di maschio qualunque. col passare dei mesi la giacca si impregna di odori misti: odore di axe, di sudore, di umidità, di cibo cinese, di ghiaccio, di tabacco, di panna. a metà stagione, quando ho conosciuto i ragazzi che lavorano in laboratorio, posso affermare con certezza quasi assoluta chi di loro ha indossato la giacca per ultimo: mi vanto di avere un ottimo olfatto. a fine agosto, a stagione ormai terminata, quella giacca è una bomba di testosterone, sembra quasi pelle di animale, ma questo non la rende meno confortevole per me.
indosso il giubbotto e mi copro la testa col cappuccio. mi infilo dei guanti di gomma spessi. è una vestizione buffa, soprattutto quando fuori ci sono trenta gradi e la gente gira in canotta.
mi asciugo le labbra prima di entrare in cella, temo sempre che mi si incollino per il freddo.
poi

tlack.

faccio scattare la maniglia, entro.
esito sempre un po’ prima di chiudere la porta alle mie spalle, la paura di rimanere bloccata dentro è costante. ma sempre devi chiudere la porta quando fai i refill dei frigo, altrimenti la temperatura interna si abbassa e non fa bene al gelato.
quindi, non importa se ti cachi sotto: quella porta la devi chiudere.
e io la chiudo.

tlack.

il secondo tlack è causa di un moto di vertigine. un momento di “ma se non si riapre più?”.
la vertigine è un avvitarsi del cuore e della pancia, uno strozzarsi per poi liberarsi, come a fare bocconi avidi di aria.
la vertigine te la dà sempre quel “ma”, quello che non ti fai mancare mai.
“ma se non si aprisse più?”
“ma se non mi sentissero, da fuori?”
ma se.
mi sforzo di ignorare quel pensiero, mi metto a cercare le scatole di gelato segnate sulla lista e le sistemo su un carrello.

passerò il prossimo quarto d’ora qui dentro, in solitudine totale.
è il momento che preferisco, è il mio momento.
si sente solo il ronzio del motore del frigo e il rumore prodotto dal mio fiato che entra come lama nella gola e tutta mi taglia.
il tempo si fa sospeso, s’incolla addosso come abisso.
l’interno della cella è luminoso, di luce quasi che acceca.
questo freddo paralizza il pensiero, istupidisce lo sguardo e mi rallenta.
mi sento un pinguino nell’acqua polare, mi sento svuotata di lavorio cerebrale.
ogni volta provo a rimanere un po’ più a lungo qui dentro, come a vedere quanto resisto, come in un’apnea di tinta vagamente suicida: un po’ di più e ancora un altro poco e ancora un pochino…
a spingermi a premere il pulsantone verde sulla maniglia per aprire la porta è la paura di essere rimasta veramente bloccata all’interno.
lo pigio sempre prima di avere troppo freddo, il pulsantone che sembra quello dei quiz tivù, lo premo prima che la vertigine di un pensiero di morte mi colga troppo lucidamente.

è sempre un “ma se” a far lo strozzo.
“ma se mi avesse mentito?”
“ma se non potessi vederla mai più? “
“ma se tutto finisse domani?”
ma se.
ma.
vertigini, asprissime, dolcissime.

mio padre ama andar per boschi. infilategli quattro pali di legno con le cime dipinte di verde in un terreno con una pendenza del 45%, spegnete le luci e fatelo camminare in tondo, possibilmente tirandogli addosso delle catinate d’acqua gelata, e lo farete un uomo felice. mio padre è fatto così: è l’idea dell’andar per funghi che gli piace, mica i funghi in sé. io mio padre non l’ho mai capito nel suo arrampicarsi per sentieri ostinato e faticosissimo, l’ho sempre seguito o con rabbia frustrata o con la curiosità arresa di chi attende l’illuminazione, di chi si aspetta che il senso del cosmo gli si riveli.

ora ho capito che anche mio padre prova la vertigine, andando a funghi.
la vertigine di mio padre è “l’urs”, è l’orso. ché mio padre ha paura di incontrare l’orso nel bosco, ha paura che l’orso se lo mangi. e non è che vada a funghi  nel Wyoming, nel parco di Yellowston, no. però lui ci ha paura uguale, che se lo sogna anche, l’orso.
ma nonostante questo, ci va, a funghi.
e gli piace.
non rinuncia, per l’orso, alle secchiate d’acqua e ai dirupi che tanto lo affascinano.
anzi, il pensiero di poterlo incontrare davvero rende il tutto più eccitante, più nervoso.
l’orso dà a mio padre quella vertigine che dà a me la porta chiusa della cella.
è il chiedersi che sarà, dopo.
è il “ma” a cui non sappiamo rinunciare.
è una droga quel “ma”.
è dubbio e possibilità.

premo con forza il pulsantone verde.
non succede nulla.
schiaccio di nuovo.
niente.
più forte.
una, due, cinque volte.
mi butto contro la maniglia con tutto il lato sinistro del corpo.
do una spallata che mi lascerà il livido.

tlack.

i clienti mi vedono uscire dalla cella di colpo, con un balzo.
prendo le scatole in braccio, quindici chili per volta, come cristiani piccoli.
i clienti vedono un alieno intabarrato attraverso la porta vetri che separa la produzione dal negozio, vedono un astronauta, mi indicano e ridono.
non sanno i clienti che sono una sopravvissuta, non sanno che io godo di vertigini.

non sanno niente i clienti, nessuno sa niente.

2 commenti:

  1. "la vertigine è un avvitarsi del cuore e della pancia, uno strozzarsi per poi liberarsi, come a fare bocconi avidi di aria.
    la vertigine te la dà sempre quel “ma”, quello che non ti fai mancare mai".

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  2. io, imparo intabarrato...
    mi sollazzo fino al, ...nessuno sa niente.
    ahhh!
    chissà come si dovrebbe descrivere l'elogio alla... forte completezza che hanno le tue parole
    "l'urs"... magnifico.

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